Fabio Concato, il musico ambulante: «Canto la mia Milano, con la nostalgia dei teatri pieni di gente»

Fabio Concato, il musico ambulante: «Canto la mia Milano, con la nostalgia dei teatri pieni di gente»

di Ferruccio Gattuso

C’è chi, per ottenere l’attenzione della gente, deve affidarsi a un fiume di parole, armarsi di una mitragliatrice caricata a prosa e sparare nel mucchio. E poi ci sono quelli come Fabio Concato, 67 anni, milanese, che credono ancora nella poesia adagiata su armonie non banali, cui bastano veloci pennellate per dare forma a un personaggio, una sensazione. Ti sorprendi a emozionarti alla semplice vista di una casa cantoniera abbandonata, e sai che lo devi a un artista come lui. La normalità diventa poesia ed è giusto dietro l’angolo: Fabio Concato ce lo ricorda sin dai tempi di Domenica bestiale.

Ora quella gita al lago, conquistata uscendo da una Milano sonnecchiante, è diventata una missione impossibile. Riavremo la normalità?

«Sì, anche se l’incertezza ci ferisce. Vorremmo poter programmare qualcosa delle nostre vite. Dopo un anno, siamo tutti provati, economicamente e psicologicamente».

Qualche suo collega ha provato a cantare la pandemia: poi è uscita il suo Umarell e la competizione è finita.

«Sono felice che quella canzone sia piaciuta: mi è venuta fuori un pomeriggio. La statuetta dell’Umarell mi guardava dal leggio del piano elettrico e mi diceva: “bè, allora ti metti a scrivere?”».

Con quella canzone ha commosso il pubblico e ricevuto l’Ambrogino d’Oro 2020: se lo aspettava?

«Non del tutto. È nata di getto, in dialetto milanese, per raccontare la solitudine del lockdown in una città come la nostra. Poi, certo, per evitare strafalcioni, ho fatto controllare ogni riga ad amici milanesi doc. Mi sono giunti apprezzamenti da Bolzano a Sorrento, e questo mi ha inorgoglito: per una volta il dialetto milanese è arrivato al cuore di tutti».

Cos’è cambiato in lei a un anno di distanza da quell’ispirazione?

«Un filo di speranza in più, per i vaccini.

Anche se poi si legge che non ce ne siano abbastanza. Un anno fa c’era la sensazione della novità, dell’emergenza. Ora siamo tutti più stanchi, la cronaca degli scontri di strada di qualche giorno fa ci racconta di un disagio mentale collettivo».

A gennaio è uscito “Musico ambulante”, doppio album con il meglio del suo repertorio in versione chitarra e voce più il brano “L’Umarell”, finora disponibile solo in rete: il titolo è un auspicio?

«Sì, la musica dal vivo girando per teatri mi manca molto. Ma anche, semplicemente, quella realizzata in studio. La tecnologia ti permette di lavorare da remoto: la voce de L’Umarell, incredibile a dirsi, l’ho cantata in un iPhone. Però dare forma alle canzoni nella stessa stanza con i tuoi musicisti è tutta un’altra cosa».

I teatri e gli auditorium chiusi da un anno: si poteva fare altrimenti?

«Io dico di sì. Penso che non avremmo mai dovuto chiudere. Prendendo le giuste misure di sicurezza, teatro e un certo tipo di live sarebbero potuti rimanere. Non esiste una letteratura di contagio sugli spettacoli di questo tipo».

Milano e Concato: è lo stesso amore di sempre?

«Questa è la mia città. Ne ho viste tante, di Milano. Quella che ricordo con più affetto è la Milano anni ’70: ingrigita e ferita dagli anni di piombo, ma attraversata da un fermento ideale e culturale unico. Si parlava molto, si faceva cabaret, io lo facevo con l’amico Giorgio Porcaro con cui debuttai al mitico Derby».

Qual è la sua zona del cuore a Milano?

«Vivo vicino a Corso Vercelli, ma i ricordi più intensi li ho in piazza Firenze: la vecchia compagnia di quaranta amici debosciati al bar, le gite in moto partendo da lì, le partite a carte e, ebbene sì, i commenti alle ragazze che passavano».


Ultimo aggiornamento: Venerdì 9 Aprile 2021, 09:02
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