Funivia, il pm e la “banda dei freni”: «I tre potevano scappare, rischiano pene elevate»

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di Claudia Guasco

dal nostro inviato
VERBANIA Quattordici persone morte e tre indagati in carcere che «hanno agito in assoluto spregio» della vita, mossi dalla sete di denaro. E che, schiacciati da accuse pesanti come un macigno, avrebbero potuto scappare. Il decreto di fermo nei confronti di Luigi Nerini, amministratore unico della società Ferrovie del Mottarone, del direttore di esercizio della funivia Enrico Perocchio e del capo servizio Gabriele Tadini motiva con il rischio di fuga la necessità di portarli in cella direttamente dalla caserma dei carabinieri, dove sono stati convocati martedì notte. Per la procura di Verbania che indaga sulla strage della funivia «sussiste il pericolo concreto e prevedibilmente prossimo della volontà degli indagati di sottrarsi alle conseguenze processuali e giudiziarie delle condotte contestate, allontanandosi dai rispettivi domicili e rendendosi irreperibili».

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«CLAMORE INTERNAZIONALE»
Secondo i pm le contestazioni ai tre personaggi di vertice dell’impianto, per organigramma e ruoli operativi, «sono di straordinaria gravità in ragione della volontà di eludere gli indispensabili sistemi di sicurezza per ragione di carattere economico», calpestando le «basilari regole di sicurezza finalizzate alla tutela dell’incolumità» dei passeggeri. E se le loro responsabilità saranno accertate, vanno incontro a «una elevatissima sanzione detentiva». Già questo per la Procura sarebbe sufficiente a prefigurare una fuga, ma a suscitare la preoccupazione che possano dileguarsi è soprattutto «l’eccezionale clamore a livello anche internazionale per l’intrinseca drammaticità» dell’incidente, che «diverrà sicuramente ancora più accentuato al disvelarsi delle cause del disastro».

 

Cioè la disattivazione del freno di emergenza per ovviare a problemi tenici che, per essere risolti, avrebbero imposto uno stop all’impianto in alta stagione, «con conseguenti ripercussioni di carattere economico». Questione di denaro, insomma. Per gli investigatori tutto il personale era al corrente del posizionamento di quel forchettone da un mese, ma nessuno ha detto nulla e tutti hanno avallato la scelta «sconsiderata».

Nell’interrogatorio di tre giorni fa Tadini «ha ammesso di aver deliberatamente e ripetutamente inserito i dispositivi blocca freni durante il normale servizio di trasporto passeggeri, in tal modo disattivando il sistema frenante di emergenza destinato a entrare in funzione e arrestare la corsa della cabina in casi di pericolo e in particolare di improvvisa rottura della fune trainante».

Di questo intervento erano stati più volte informati tanto Perocchio quanto Nerini, «che avallavano tale scelta e non si attivavano» per effettuare quei lavori di manutenzione che avrebbero pesato sul fatturato ma evitato il disastro. Su quell’operazione di inserimento delle ganasce non risulta al momento nessuna mail né comunicazione scritta, dicono gli investigatori, ma non è escluso che vi siano tracce nella cospicua documentazione sequestrata presso la sede della società, nei computer e nei telefoni degli indagati. La Procura sta inoltre valutando la posizione della squadra di operai che con Tadini, il quale ha ammesso di aver inserito materialmente il forchettone, avrebbero messo in atto «la scelta aziendale di bypassare l’anomalia» al sistema frenante emerso da oltre un mese. I magistrati vogliono capire se gli addetti fossero consapevoli o meno delle conseguenze che poteva avere l’utilizzo delle ganasce.

Restano da accertare, invece, i motivi del cedimento della fune trainante, in seguito al quale la cabina numero tre è scivolata a valle «a folle velocità». Ieri Giorgio Chiandussi, professore di Ingegneria meccanica e aerospaziale al Politecnico di Torino, ha effettuato il primo sopralluogo alla funivia del Mottarone. Nominato come perito dalla Procura, si è soffermato sui rottami della cabina e ha osservato da vicino alcuni punti della fune d’acciaio, «l’oggetto del nostro quesito». E ha fatto coprire con un telo di plastica il braccio della cabina precipitata, «la parte posizionata all’attacco dei cavi».


SCATOLA NERA
Tra le varie ipotesi c’è anche quella per cui il cavo si sia sfilacciato proprio per i forchettoni inseriti e che in seguito si sia spezzato. Parte delle risposte potrà arrivare dal sequestro e l’analisi della scatola nera, «un sistema che registra tutti gli aspetti tecnici dell’impianto, come la velocità, l’andatura, l’oscillazione» della funivia. In base al quadro che emergerà dalle analisi dell’ingegnere del Politecnico arriveranno nuove iscrizioni nel registro degli indagati, che potrebbero comprendere chi ha avuto il compito di effettuare la manutenzione e la revisione (figurano diverse società) dell’impianto e della cabina di cui ora rimane il relitto accartocciato, pezzi di finestrino e lamiere sparse nel bosco. Simbolo di morti che ora non si piangerebbero se non si fosse deciso di «eludere gli indispensabili sistemi di sicurezza» per soldi.


Ultimo aggiornamento: Venerdì 28 Maggio 2021, 18:25
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