Lancia la figlia dal viadotto e si suicida. Il negoziatore: «Ludovica Filippone era sotto choc, è volata giù senza reagire»

Lancia la figlia dal viadotto e si suicida. Il negoziatore: «Ludovica Filippone era sotto choc, è volata giù senza reagire»
Fausto Filippone aveva deciso, dall'inizio, che doveva morire: dopo sette ore in bilico su quel cavalcavia, dopo aver buttato giù e ucciso la figlia Ludovica, si è lanciato togliendosi la vita. Nonostante le trattative, che non sono servite a niente: a negoziare con lui c'era un professore, Massimo Di Giannantonio, intervistato oggi dal Messaggero, ordinario di psichiatria all'università di Chieti. Era a un metro da lui: «In quel momento pensava solo all'enormità del gesto che aveva compiuto e a come trovare il coraggio per finirla», ha detto.

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Nell'intervista il professore ripercorre le ragioni della strage familiare di qualche giorno fa: dietro il gesto di Filippone ci sarebbe un forte trauma. «Ha detto che era un uomo felice e che aveva una vita serena, ma che qualcosa era cambiata 15 mesi fa, quando ha avuto un forte trauma»: quale fosse questo dramma, non si è capito. Quel che è certo è che ha portato con sé la figlioletta, lanciandola da un ponte, mentre lei non ha tentato nemmeno una reazione: «Quando la pattuglia della Polizia stradale è arrivata sul posto ha visto la bambina sospesa nel vuoto accanto a lui, ma era come stordita, in totale stato di choc - continua il professore - Quando lui l’ha spinta giù non ha fatto un urlo, niente».

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«Quando esiste una pulsione suicidaria così violenta, così forte, che si rivolta contro gli affetti più cari e diretti, siamo nel campo della patologia psichiatrica più estrema, sulla quale l’intervento terapeutico è in qualche modo inefficace - continua l'esperto - La cosiddetta normalità di questa persone è una normalità apparente». Un finale già scritto dunque, nonostante i tentativi per convincerlo: «Il tentativo viaggiava su due strade: a lui non era arrivata la notizia della certezza della morte della moglie, e abbiamo cercato di fargli credere che vi potessero essere delle speranze che fosse ancora viva. E abbiamo fatto lo stesso per la bambina. Ma lui non ci ha mai fatto avvicinare».



Proprio aver ucciso la figlia poco prima ha impedito ogni speranza di recuperare la situazione e salvare la vita almeno a lui: «La coscienza di avere ucciso la propria figliola era una coscienza compatibile con questo gravissimo grado di alterazione mentale. Proibiva a chiunque di avvicinarsi per accertarsi delle condizioni cliniche della piccola - afferma Di Giannantonio - Gli abbiamo detto se potevamo chiamare un’ambulanza, far arrivare un rianimatore, che forse c’era qualche speranza. Ma lui urlava: “Non vi avvicinate, mi butto”». Inutile anche l'arrivo della sorella, a cui è stato impedito di avvicinarsi per evitare che la situazione peggiorasse e che l'uomo si buttasse alla sua vista, per via dei sensi di colpa.



Alla fine, Filippone si è buttato, autocondannandosi a morte dopo sette ore e mezza: «È stato un dialogo sostenuto con i suoi tempi: interrompeva, non rispondeva, non interagiva. Poi negli ultimi venti minuti ha cominciato a guardare nel vuoto. Guardava giù e guardava noi. E poi ancora giù e di nuovo noi - conclude il negoziatore - Era come un giudice che aveva emesso nei suoi confronti una condanna capitale. Il numero delle ore sospeso a quella rete era il numero delle ore che il detenuto passa nel braccio della morte: gesto commesso, condanna pronunciata, occorreva soltanto stabilire il momento nel quale agire. E a quel punto abbiamo capito che non c’era più niente da fare».
Ultimo aggiornamento: Martedì 22 Maggio 2018, 16:16
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