Paolo Crepet: «Il virus ci rende "Vulnerabili". Lo psichiatra analizza gli effetti del covid

Paolo Crepet: «Il virus ci rende "Vulnerabili". Lo psichiatra analizza gli effetti del covid

di Totò Rizzo

Il Covid-19 ci ha fatto scoprire fragili, esposti ai rischi, precari, certamente non invincibili come forse credevamo. Tutto ad un tratto, inaspettatamente. Il virus ci ha messo davanti allo specchio e in quel riflesso non abbiamo più potuto barare: siamo «Vulnerabili», parola che è anche il titolo del nuovo libro di Paolo Crepet (Mondadori, 204 pagine), psichiatra di lungo corso che spesso ha affidato alle pagine l’analisi collettiva di paure, timori, derive della mente e del corpo, nuovi costumi indotti dai tempi, modi di pensare e di agire.


Che effetto ha su di noi la pandemia?
«Quello di un’anfetamina, stressa chi la prende. Ha acuito la nostra sensibilità, esasperato le nostre reazioni. Come un dentista che tocca un nervo scoperto. Ma se da un lato è stata questo, dall’altro ha forse rappresentato un piccolo passaggio della nostra vita, un’occasione per riflettere, per gettare le fondamenta di una ritrovata razionalità. Abbiamo capito probabilmente che parlavano di vaccini troppi ex dj».

Ci ha fatto anche scendere da un piedistallo di onnipotenza. Quando ci eravamo saliti sopra?

«Qui da noi negli anni euforici del boom economico. Il benessere, insieme con le grandi scoperte scientifiche e una maggiore aspettativa di vita, la riconquista di diritti perduti per lunghi anni, dopo il buio della guerra e la fatica della ricostruzione, ci avevano regalato grande sicurezza. Più di recente, il modello transatlantico, esportato nei vari continenti – tutti Superman e Ironwoman – ha rafforzato questa illusione, le videocassette di Jane Fonda, i cinquantenni brizzolati che affrontano le maratone… Invincibili, insomma. Adesso, da un giorno all’altro, è arriva questo virus sconosciuto a dirci: spiacente, vi eravate illusi».

Il virus ci ha fatto riscoprire anche limiti, divieti, regole…

«Sì, ma li abbiamo mal digeriti confondendo peraltro la libertà – che non è certo quella garantita dalla Costituzione alla quale alcuni intellettuali impropriamente si sono aggrappati – con l’arbitrio. Durante il lockdown della scorsa primavera, un giornalista tedesco mi ha detto che era sorpreso dalla disciplina dimostrata dagli italiani. Gli ho risposto: “Aspetti un paio di mesi…”».

Eppure, negli anni Ottanta, l’Aids aveva già messo in discussione alcune certezze…

«In quell’occasione abbiamo un po’ chiuso gli occhi, c’è stata una reazione moralista, l’hiv era un virus che minava la sfera della libertà sessuale».

C’è qualcosa di buono nel campo scientifico, al di là delle polemiche tra i virologi, che questo periodo ci ha fatto riscoprire?

«Sì, abbiamo riacquistato fiducia nella formazione, nella ricerca, nel talento.

Magari obtorto collo, ma siamo stati costretti a riconoscere e a rispettare il lavoro degli scienziati. Qualcuno oggi ha capito quanto sia demagogico l’“uno vale uno” e che il vaccino non lo scoprirà un garagista solo perché non è il suo mestiere».

C’è qualcosa che rimprovera a chi ha comandato la nave durante la tempesta?

«La gestione della scuola e quella degli anziani. Fatto salvo il diritto alla salute, non c’è proprio consapevolezza di cosa sia educare. D’altronde, se la scuola è l’ultima ruota del carro, se è considerata da molti improduttiva perché produce solo conoscenza che è libertà e cultura che in questo Paese è un elemento accessorio… Chiaro che la didattica a distanza, necessaria per quanto sia, accentui le frizioni sociali. Ma un’altra forma d’odio sociale è quella che ha riguardato i vecchi: sono rimasto attonito di fronte a quello che è accaduto nella Rsa, su come è stato negato ogni diritto di relazione coi figli, coi nipoti, su come è stato affrontato il momento del trapasso e quando una civiltà non dà dignità alla morte è morta essa stessa».

Finito il primo atto, ora purtroppo è in scena il secondo, ancor più pauroso. Quali sono gli interrogativi che dobbiamo affrontare per il futuro?

«Nessuno finora si è domandato: una volta sopravvissuti, dovremo educarci a una diversa vita emotiva e affettiva, ad impostare i rapporti secondo nuovi codici? Nessuno si è chiesto: come saranno le città post-Covid? Lavoreremo ancora in versione smart da casa? Oppure riaffolleremo i centri storici di uffici come è accaduto negli anni Sessanta sfrattando i vecchi abitanti e i negozi di vicinanza, spostando come allora persone e mercati come fossero mattoncini di Lego? Dobbiamo ripartire da queste domande di progetto e di speranza».

E cosa dovremo conservare invece di questo 2020 di dolore, affanno, paura, sacrificio?

«Tenere caro come promemoria, ma senza farcene intimidire, questo senso di fragilità come fosse un dono, un’opportunità, un’occasione. Ricostruendo sull’opposto dell’individualismo, dell’arroganza, del cinismo che ci hanno dominato. Quasi un secolo fa Camus diceva: “Quando si sostituisce alla parola dignità la parola successo, è la crisi”. Non dimentichiamo che gli anni più belli del nostro Paese sono stati quelli del dopoguerra, vissuti dai nostri genitori o dai nostri nonni. I nostri anni ’50 hanno stupito il mondo e anche allora uscivamo dal dolore».

Paolo Crepet, Vulnerabili, Mondadori, 204 p, 19 euro


Ultimo aggiornamento: Martedì 27 Ottobre 2020, 11:33
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