L’Aquila, 10 anni dopo il sisma: «Il mio Matteo figlio del terremoto non ha mai visto una scuola vera»

Video

di Stefano Dascoli
Se dieci anni possono avere un senso, e solo uno, forse è tutto racchiuso negli occhi vispi e nel sorriso abbacinante di Matteo, uno dei figli di quel 6 aprile 2009 che ha cambiato per sempre le sorti dell’Aquila e dei borghi limitrofi. Matteo ha visto la luce mentre tutto intorno si piangeva, si scavava, si lottava per sopravvivere. Ha emesso il primo vagito nel giorno delle urla e della disperazione. La vita che, come sempre, riesce a sconfiggere la morte. La speranza e la salvezza quando tutto sembra perduto. Matteo non conosce l’angoscia di quel rombo improvviso e la brutalità della sua forza devastante. E, soprattutto, non sa quanto era bella L’Aquila prima. Non sa che al posto di quei contenitori di latta, plastica e legno c’erano scuole vere. Non sa che i pomeriggi si trascorrevano nei parchi o nelle piazze, anziché al centro commerciale. La “sua” non-città è sempre stata questa: i moduli provvisori, le casette, i palazzi puntellati, le new town, i camion, le ruspe. 

IL CORAGGIO
Grazie al coraggio e alla forza di sua madre Marilena Giansante e della sua famiglia, tutto ciò non gli ha negato, però, il diritto a un’infanzia comunque serena. E a immaginare un futuro qui. Marilena, ovviamente, ha un ricordo di quella notte marchiato a fuoco nel cuore e nella mente. «Ero in ospedale. Matteo doveva nascere il 4 aprile e io quella sera ero in travaglio. Alla prima scossa, intorno alle 22.30, ci siamo preoccupati, ma non più di tanto, viste le rassicurazioni dei giorni precedenti. Alle 3.32 ero in camera. Sono stati momenti di panico totale. Ricordo una ragazza che si è staccata la flebo da sola e un’altra che aveva subito un cesareo presa in braccio e portata via. Siamo scappati fuori, senza renderci conto bene di ciò che era successo. Sono rimasta nel piazzale dell’ospedale finché al mattino, intorno alle 9, non è venuta un’ambulanza da Rieti a prendermi. Avevo le contrazioni». Una situazione surreale. «Ero l’unica in travaglio – racconta ancora Marilena – e a mio marito dissero che ero a rischio. E poi c’erano le autostrade chiuse: l’unico ospedale accessibile era quello di Rieti». 

ISOLATA
Alle 17 di quel pomeriggio è nato Matteo, il primo figlio del sisma, quattro chili e mezzo di speranza. Fino al momento del parto è come se Marilena si fosse isolata dal mondo, scacciando dalla mente l’idea del terremoto e delle sue conseguenze. «Nessuno mi aveva detto nulla. Quando nei giorni successivi ho capito l’entità del disastro sono stata molto male, è stata veramente dura. Devo ringraziare l’ospedale perché ha ospitato la mia famiglia per quindici giorni alleviando quella sofferenza». A quel punto Marilena ha dovuto fare i conti con la vita da sfollata. Un mese a Roma, ospite di una zia. Poi il rientro in città, una casa danneggiata solo lievemente, le notti in tenda per la paura. «E’ difficile raccontare con razionalità tutto quello che è accaduto, la gioia della nascita di Matteo è stata immensa, ma quando ho visto la città in quelle condizioni non volevo crederci». 

UNA FESTA A METÀ
Il 6 aprile, da allora, in casa Tresca-Giansante, è il giorno della felicità a metà: «Il compleanno di mio figlio è sicuramente un momento di contentezza, ma internamente non si riesce a festeggiare a pieno. Quando noi sorridiamo altri piangono. Non è semplice, quando si parla dell’anniversario io mi sento sempre un po’ in imbarazzo». Questi dieci anni sono stati entusiasmanti, ma anche molto complessi. Crescere un figlio dopo una catastrofe non è stata, e non è, impresa facile. «Il sisma ti segna a vita – dice Marilena – Se ne parla ancora come se fosse accaduto ieri. La difficoltà è quella di non avere una città: è complicato anche dire vado a fare una passeggiata, nonostante i tanti sforzi che vengono fatti. Dicono tutti che in vent’anni forse L’Aquila riavrà una sua identità, spero che Matteo potrà conoscerla presto più bella di quanto non lo fosse fino al giorno della sua nascita».

GLI OCCHI
E’ quasi surreale immaginare con che occhi questo bambino di dieci anni abbia visto e conosciuto una città martoriata. «Del terremoto abbiamo parlato, non si poteva nascondere – racconta la mamma – Inizialmente non si rendeva conto bene di cosa significasse. Fino a quando, una volta, ha avvertito una scossa più forte. Lì si è spaventato e ha capito. Sa che quel giorno è crollata una città, questo sì». Per Matteo la “normalità” è questa. « Non sa come erano le scuole prima, è sempre andato in classe nei moduli provvisori. Ma è contento così: è un bambino molto solare, iperattivo, curioso. Scherzo sempre con lui: “Sei nato il 6 aprile, sei un vero terremoto”». Matteo, Marilena, papà e fratellino sono anche un esempio della tanto decantata resilienza aquilana: «Non abbiamo mai pensato di andare via – conclude Marilena perentoria -, di crescere un bambino altrove. E’ ovvio che è difficile non avere una città, ma siamo legati all’Aquila e qui resteremo». 
 
Ultimo aggiornamento: Lunedì 1 Aprile 2019, 09:14
© RIPRODUZIONE RISERVATA