Ilaria Cucchi, dieci anni senza Stefano: «Mi sembra ieri, eppure non ricordo più la sua voce»

Dieci anni senza Stefano Cucchi, la sorella Ilaria: «Mi sembra ieri, eppure non ricordo più la sua voce»

di Davide Desario
Ilaria Cucchi ha 45 anni. Ha un lavoro (il suo studio amministra condomini). E ha due figli. Ma da dieci anni non ha più suo fratello: Stefano, è morto a 31 anni all’ospedale Pertini di Roma (reparto detenuti) dove era stato ricoverato in condizioni disumane dopo essere stato fermato dai carabinieri perché trovato in possesso di un piccolo quantitativo di sostanze stupefacenti. Era il 22 ottobre del 2009. Pesava appena 37 chili.

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Partiamo dalla fine: nell’ultima udienza del processo il Pubblico ministero Giovanni Musarò ha chiesto 18 anni di reclusione per i due carabinieri accusati del pestaggio di Stefano Cucchi. Che ne pensa?
«Penso che il Pm non abbia chiesto pene esemplari ma pene giuste. Sono passati dieci anni e finalmente lo Stato è al nostro fianco. Ma abbiamo dovuto soffrire. Io e i miei genitori abbiamo dovuto sopportare indagini truccate, depistaggi e momenti di sconforto che non auguro a nessuno».

Mi dica il primo che le viene in mente.
«La requisitoria di primo grado nel 2013, quando il pm Maria Francesca Loy definì mio fratello un cafone maleducato. Sembrava che il processo fosse contro Stefano e non contro chi lo aveva ridotto così mentre era nelle mani dello Stato. È stata dura ma ne è valsa la pena. Le cose ora sono cambiate. Lo Stato sta dimostrando che la legge è uguale per tutti, senza sconti. Anche per chi si nasconde dietro una divisa».

Cosa avete organizzato per questo anniversario?
«Questo fine settimana ci sarà uno splendido memorial in due giornate. Sabato una serata di musica e diritti all’Angelo Mai. E domenica mattina una maratona e tanto sport, come piaceva a mio fratello, nel Parco di Torre del Fiscale. E per la prima volta vivrò tutto questo senza il peso di dover chiedere scusa a Stefano per averlo sottoposto a dieci anni di processi».

Dieci anni: tanto tempo? Poco tempo?
«A me sembra ieri. Il tempo sembra si sia fermato. Sarà che non mi sono fermata un attimo. Che non ho avuto il tempo di pensarci perché dovevo lottare per lui. Anzi dovevamo: perché da soli non si fa niente. Poi però, quando faccio fatica a ricordare com’era la voce di Stefano, mi rendo conto di quanto tempo è andato via».

In questi dieci anni c’è mai stato un giorno che non abbia pensato a suo fratello?
«No, mai. Mi sveglio ogni mattina con il suo pensiero. E questo pensiero mi ha dato la forza per andare avanti. Per superare problemi di ordine economico, sì ci sono anche quelli in una brutta storia come questa. Ma soprattutto problemi sul piano emotivo. Io e la mia famiglia abbiamo dovuto patire delle sofferenze che non riesco nemmeno a spiegare. Basti pensare a come ce lo hanno restituito, a come l’hanno ammazzato. Non solo di botte. Ma di pregiudizi. Di solitudine».
 
 


Le tornano in mente ricordi di quando giocava con suo fratello da bambina?
«Certo. Quando venivano le mie amiche a casa, per esempio, lo usavamo come un bambolotto e ci divertivamo a vestirlo. E lui stava al gioco».

Come la chiamava Stefano?
«Usava sempre il mio diminutivo, Ila».

E lei?
«Io lo chiamavo tappetto, perché è sempre stato piccolo».

Oggi c’è una canzone su tutte che glielo ricorda subito?
«Sì, il Cielo di Renato Zero».

Perché?
«Ricordo una scena di qualche anno fa. Eravamo a Tarquinia in campeggio. Stavamo facendo un barbecue in famiglia, cercavamo un momento di serenità. Il mio compagno ha messo un po’ di musica all’Ipad ed è partita la canzone di Renato Zero. Ci siamo voltati e abbiamo visto mio padre Giovanni piangere come un bambino».

Cosa le è rimasto nel suo cassetto di Stefano?
«Conservo tante cose. Ma su tutte c’è quello che rappresenta la voglia che Stefano aveva di cambiar vita. Si stava dando molto da fare nel seguire le pratiche nei cantieri. Ci credeva. Gli piaceva. E così si era fatto fare i bigliettini da visita. Ma sono arrivati, qualche giorno dopo la sua morte».

Cosa c’è scritto?
«Stefano Cucchi, geometra. Via Ciro da Urbino 55 (l’indirizzo dello studio di famiglia ndr.). E il telefono. Sono lì. Nessuno li ha toccati». 

Ha dei rimorsi?
«No. Rimorsi zero». Silenzio, un sospiro. «No, forse un rimorso ce l’ho, è vero. Quello di non aver buttato giù quella porta quando stava in ospedale. Ma ero un’altra donna, più giovane, più ingenua. Mi fidavo dello Stato».

Oggi non si fida più? Cosa ha detto ai suoi figli?
«Ai miei ragazzi ho detto la verità. Che ci sono stati dei carabinieri che hanno sbagliato con una crudeltà disumana. Ma ho detto loro che non tutte le persone che indossano una divisa sono così. Dobbiamo continuare ad avere il diritto di credere in quel che rappresentano le forze dell’ordine».

In questi anni i politici le sono stati vicini?
«Sì, tante persone. Di destra e sinistra, senza bandiera. Davvero».

Faccia un nome.
«Mi viene subito da ricordare Luigi Manconi, fu il primo a chiamare pochi giorni dopo il decesso. E ci è stato molto vicino».

E chi è che l’ha ferita di più?
«Carlo Giovanardi. Ha accusato me e la mia famiglia di cose orribili. Ma mi sono fatta una grande risata. Ma la cosa peggiore è che ha insultato Stefano. E Stefano non poteva difendersi».

Eppure non ha avuto rigetto della politica, anzi si è candidata due volte.
«La prima nel 2013, seguendo Antonio Ingroia. Credevo che potesse essere l’opportunità per portare all’attenzione di tutti i temi che mi stavano a cuore, quelli dei diritti umani, temi che sembra che non interessano a nessuno e di cui si parla sempre troppo poco.

E la seconda?
«Nel 2016. Alle amministrative di Roma. Fu più una provocazione per chiedere a quei politici di fare un passo indietro. Ma non l’hanno fatto. E allora me ne sono andata io».

Oggi ci proverebbe ancora?
«No. Perché credo che la politica è quella che io e la mia famiglia abbiamo fatto in questi dieci anni lottando per la giustizia. E non solo per Stefano ma per tutti gli ultimi. Perché ognuno pensa che quello che è successo a Stefano sia lontano dalla sua vita ma purtroppo non è così».

A proposito di credere, crede in Dio?
«Sono una persona profondamente cattolica. Io e Stefano siamo cresciuti tra la parrocchia e gli scout. La fede è stato un altro importante elemento che mi ha permesso di andare avanti. Nel film Sulla mia Pelle c’è un passaggio, forse l’unico minimamente ironico, in cui gli chiedono se è credente e lui risponde “no sperante”. Ecco anche io sono sperante».

Da credente come se lo immagina Stefano ora?
«Che mi sorride per la prima volta. Quando ancora non sapevamo e non potevamo immaginare nulla di quel che gli era accaduto, Stefano apparì in sogno. Era sorridente e disse che dovevo andare avanti ad accertare la verità. Non solo per lui. Ma per tutti quelli come lui. Ecco penso che gli sia tornato il sorriso dopo dieci anni».

La Chiesa le è stata vicina?
«Sì, sono stata ricevuta insieme ai parenti di tante altre vittime da Papa Ratzinger. Ma la cosa che mi colpì fu quando, dopo la riesumazione della salma, lo rinchiusero nel loculo del cimitero senza dirci nulla. Ancora una volta Stefano moriva da solo. Come un cane. Senza nemmeno qualcuno al suo fianco. Raccontammo tutto questo al nostro vescovo, monsignor Giuseppe Marciante, e lui venne con me e i miei genitori a pregare sulla tomba di Stefano».

Non crede che ora il film Sulla Mia Pelle meriterebbe un seguito?
«Sì, certo. Dopo aver raccontato la tragedia di Stefano bisognerebbe raccontare il dramma della sua famiglia. Di me, dei miei genitori che sono distrutti, e degli altri familiari. Come i miei figli a cui forse non ho dato un’infanzia come tutti gli altri. Ho sofferto anche per questo, ma oggi credo di avergli dato un grande esempio».

In attesa di un nuovo film, tra poco uscirà il suo libro.
«Sì, il 22 ottobre proprio nell’anniversario della sua morte. L’ho scritto insieme all’avvocato Fabio Anselmo che nel frattempo è diventato il mio compagno. Raccontiamo la nostra storia, la nostra battaglia, la nostra sofferenza».

Come si intitola?
«Il coraggio e l’amore».

Già, più coraggio o più amore?
«Non lo so. Ma sicuramente l’amore ci ha dato il coraggio di andare avanti. Di non smettere di crederci anche nei momenti più bui. Quelli che non ti fanno dormire».

Come sono le sue notti?
«Mi sveglio in preda al panico come se mi accorgessi all’improvviso che è proprio vero che mio fratello non c’è più. A volte quando mi risveglio questa sensazione ce l’ho ancora addosso».

Ma Ilaria Cucchi ha più sorriso?
«Certo. Non dobbiamo mai smettere di sorridere, altrimenti è davvero la fine».

L’ultima volta?
«Oggi a pranzo. Con mia figlia siamo andati da Mc Donald’s. Lei è una simpaticona. Abbiamo parlato molto, soprattutto di lei. Aveva voglia di raccontare. E quando siamo uscite mi ha detto: “Mamma è già finito il nostro momento delle confidenze?”. E io sorridendo le ho promesso che dopo cena avremmo ricominciato».

Ultima domanda: per tanti anni ha scritto sulle pagine di Leggo, tornerà?
«Volentieri. Davvero. Appena posso».
 
Ultimo aggiornamento: Martedì 8 Ottobre 2019, 16:30
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