Coronavirus, i quattro fratelli Mautone infermieri in prima linea nel reparto Covid

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di Sabrina Quartieri
Raffaele ha da poco terminato il suo turno al Cardiocentro di Lugano. È specializzato in Emodinamica, ha 46 anni e di professione fa l’infermiere. Come i suoi fratelli Valerio, Maria e Stefania, che con lui condividono la missione di essere in prima linea nella lotta al Coronavirus. I Mautone, originari di Napoli (con tre di loro residenti da anni a Fino Mornasco, un paesino vicino Como), ogni giorno hanno a che fare con il volto più crudo dell’emergenza sanitaria. Lavorano costantemente a contatto con pazienti Covid-19 sospesi tra la vita e la morte. Una situazione non facile, aggravata dal morale a pezzi, dai ritmi incessanti in corsia, dalle protezioni che tolgono il fiato e dalla preoccupazione di contagiare figli, mogli e mariti. La prova da superare è dura, durissima, ma i quattro infermieri che portano lo stesso cognome non si tirano indietro, quando c’è da combattere.
 
 

Nati e cresciuti nelle case popolari di Pianura, un quartiere difficile del capoluogo partenopeo, i Mautone hanno dovuto imparare presto a difendersi. In primis dai bulli, perché non volevano entrare in certi giri e non si comportavano come loro. «Sono fiero di noi, di quello che facciamo e di ciò che siamo diventati – racconta Raffaele – Abbiamo sempre lottato e continueremo a farlo. Anche stavolta in prima linea, con le nostre mani nude a somministrare umanità». Mentre parla, il suo pensiero va al fratello Valerio, arruolatosi nella guerra al Coronavirus da volontario. «Di quando era piccolo ricordo la sua paura del buio. So che ha paura anche ora – sospira Raffaele – eppure è lì a dare una mano». L’ospedale in cui lavora è il Sant’Anna di Como. Il reparto, quello della rianimazione Covid, dove gli infermieri eseguono la delicata manovra di pronare i degenti intubati.

«Noi siamo lì al momento dell’ultima chiamata a casa dei pazienti. Vediamo la paura nei loro occhi ma, allo stesso tempo, sentiamo la voce rassicurante di chi cerca di tranquillizzare i propri cari – spiega Valerio, 43 anni, prestato all’emergenza dalla sala operatoria di Neurochirurgia – Cerchiamo di infondere coraggio, ma non è sempre facile, specie quando si tratta di giovani». Come Andrea, 24enne, che alla fine però ne è uscito bene. Quando si è svegliato dal coma dopo una settimana, ha subito chiesto il suo telefono per chiamare la madre. Le aveva promesso che non l’avrebbe lasciata. O Michele, di 50 anni, che prima di uscire dall’ospedale ha voluto sapere chi fosse l’infermiere che lo avevo salvato. È tornato a casa con il nome di Valerio scritto sul braccio con un pennarello. In prima linea, sempre al Sant’Anna, c’è anche Maria, la sorella minore dei quattro. Ha 36 anni ed è mamma di due bambini. Il suo primo giorno nel reparto Covid-19 della ex Chirurgia generale non è stato facile.

A darle coraggio sono arrivate le parole di sua madre: “I problemi vanno affrontati, se no diventano giganti”. Così, bardata e con una mascherina che le toglieva il fiato, l’infermiera ha chiuso gli occhi e ha spinto la porta che la separava dai malati. È bastato guardare negli occhi il primo di loro, per far sparire tutte le paure. Poi, in poco tempo, solare com’è da napoletana doc, Maria ha imparato a sorridere oltre le barriere, con gli occhi e, quando capita, intona persino canzoni. Come quella volta che, alle tre di notte, ha sussurrato “Sempre si cambia” di Giorgia a un paziente che gliel’aveva chiesta. A somministrare umanità (e farmaci) al Sud ci pensa invece Stefania, l’altra sorella, 38 anni e infermiera nell’area sospetto Covid-19 al “Vecchio Pellegrini” di Napoli. Ai ricoverati anziani presta il suo cellulare tecnologico per fare le videochiamate a casa; per i senzatetto in reparto organizza raccolte di pigiami e vestiti, tra le altre cose. È stata lei a fare il primo shampoo alla signora Piperno, una degente che era uscita dal pericolo. Stefania le ha poi pettinato i capelli con una bellissima treccia e prima di lasciare la sua stanza, le ha aperto la finestra. La paziente voleva sentire finalmente il vento addosso.
 
Ma il suo pensiero va spesso al Nord e ai suoi fratelli: «Qui per fortuna non c’è stata un’ecatombe come in Lombardia. Lassù stanno perdendo i nonni d’Italia, la saggezza popolare, le figure fondamentali in momenti come questi. Se non avessi i miei genitori non saprei a chi lasciare la mia bambina, infatti», racconta la Mautone pensando a papà Giorgio, infermiere anche lui e oggi in pensione, e a mamma Mafalda, che cuce mascherine per parenti e amici. L’ultima volta che la famiglia si è riunita al completo è stato a Capodanno, quattro mesi fa. Per ora ci si sente al telefono, in attesa di riabbracciarsi, si spera, a settembre, se l’emergenza sanitaria lo consentirà. E magari, quel giorno, sarà l’occasione per leggere in anteprima le lettere dei colleghi che Raffaele sta raccogliendo, per portarle a Papa Francesco insieme a una divisa: «Vorrei fargli ascoltare le voci delle persone che sono state vicine alla sofferenza dei malati», spiega, aggiungendo: Noi la morte l’abbiamo vista insieme a loro. Si dovrebbe dare il Premio Nobel per la pace agli infermieri di tutto il mondo».
 
 
Ultimo aggiornamento: Lunedì 27 Aprile 2020, 10:39
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