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«Mi chiamo Cinzia, ho 51 anni e sette figli. Racconto brevemente la mia vita a partire dal 1993, anno del mio matrimonio con Giancarlo, lo sposo con cui ho condiviso tutte le mie giornate negli ultimi ventisei anni. L’uomo che ha visto la parte migliore ed anche quella peggiore di me, con cui ho condiviso i pasti, le vacanze, vicino al quale mi sono addormentata sul divano, o meglio ci siamo addormentati entrambi. L’uomo che è entrato in sala parto quando sono nati i nostri figli, che ha fatto il mutuo per la casa e lo stava pagando con il suo lavoro, tutti i giorni di quasi tutto l’anno, nella lavanderia che era stata di suo padre e, prima ancora, di suo nonno».
Giancarlo non c'è più. Se lo è portato via il coronavirus. E lei Cinzia Trevisan, 51 anni di Gossolengo (Piacenza), ha scritto la sua storia sul sito dell'ssociazione Famiglie numerose. Racconta esperienza comunissime: i viaggi programmati e non fatti, i sacrifici, la malattia. A scorrerle si sente il ticchettio di una quotidianità scandita da cose piccole, piccolissime.
«Finanziariamente era difficile», scrive Cinzia. D'altronde lavorava solo Giancarlo.
Ma Giancarlo si è ammalato alla fine di febbraio di quest’anno. «Aveva la febbre alta, poi la tosse. Influenza, dicevano i medici. Tranquilli, bisogna avere pazienza, non occorre fare il tampone per il coronavirus. Scusate, ho quasi il rifiuto di scrivere quella parola», si legge nel resoconto di Cinzia.
«Dopo dodici giorni di malattia, di notte, mio marito si è aggravato. Ho chiamato l’ambulanza, finalmente lo hanno portato in ospedale dove, dopo altri dodici giorni esatti, è morto. Ho visto per l’ultima volta Giancarlo il 10 marzo, giorno del compleanno suo e di nostra figlia Miriam. Lui compiva 53 anni, lei 23», scrive.
«Abbiamo pranzato insieme e spento le rispettive candeline su una torta al cioccolato preparata in casa. Nella notte, i miei figli hanno sicuramente sentito il trambusto degli operatori sanitari in casa nostra, ed hanno avuto paura. Samuele si è alzato, ha visto, e con coraggio ha aiutato i due giovani operatori a trasportare il padre incosciente dalle scale della nostra abitazione all’ambulanza, operazione difficoltosa perché la barella non passava per l’ingresso stretto di casa nostra», si legge ancora.
Anche lei che ha fede ammette: «Non ho una spiegazione logica per quello che è successo, e dopotutto non mi viene richiesto di averla. Il dolore della ferita è lacerante. Brucia come il sale su un taglio profondo», scrive.
Ultimo aggiornamento: Sabato 11 Aprile 2020, 09:23
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