Non parlate al conducente. Mi ha sempre colpito il monito imperativo e minaccioso appeso sopra il posto di guida dei bus. Da adolescente pensavo che questa trasgressione – dire una cosa qualsiasi a chi era al volante- prima o poi me la sarei permessa, ma poi m’immaginavo il disastro , l’uomo che blocca il mezzo, io che scendo e scappo e lui all'inseguimento, finché finisco sul giornale. Non per questa colpevole proiezione, ma ho smesso di prendere gli autobus. Ci pensavo giorni fa mentre, vagando assorto, osservavo sfilare mezzi pubblici vuoti. Ed è stato in quel momento che ho visto i conducenti sotto un volto nuovo.
A Roma, solitamente, i bus non sono affollati, sono saturi, che è cosa diversa. Li vedevi, prima del virus, passarti davanti come enormi balene trasparenti con il ventre ricolmo di pesci appena ingurgitati e impossibilitati a trovare la bocca di fuga, ché persino scendere è una impresa.
Nei giorni della partita poi, sulle rotte verso lo stadio, alla folla compressa ma felice di quell’assembramento (preludio ad uno successivo , solo più ordinato, sugli spalti) si aggiungevano le bandiere sventolanti dai finestrini: quegli autobus finivano per evocarmi le camionette militari sfreccianti per la Capitale dopo l'armistizio, con quelle facce da neorealismo - sorridenti e stravolte - sprizzanti anarchica ed ingenua felicità.
Nei giorni dello stadio gli autisti, pressati dai tifosi alle loro spalle, non avevano problemi nel ricevere domande, perché il frastuono era tale che le richieste comunque cadevano nel vuoto, rese astratte dal dondolio del bus, impavido sulle famigerate buche.
Ma ora? Ora come la smaltiscono la solitudine del turno? E come vivono quel silenzio irreale nella capsula che attraversa la città a vuoto e che li fa sembrare astronauti di un tempo, i Gagarin che passavano mesi da soli a gironzolare nello spazio? E con che maestria teatrale – impressa, sin dai tempi di Caronte, nel DNA di chi per altri guida - riescono a rallentare, bloccarsi, aprire le porte alle fermate dove nessuno sale nessuno scende e, per dar senso a quel partire vuoti, far leva sul ricordo di quando , vocianti , all’ora di pranzo montavano gli studenti, che loro li avrebbero buttati fuori dal bus pur di avere un po’ di silenzio e ora invece quanto li rivorrebbero indietro quei mascalzoni che mettevano a soqquadro il poco spazio residuo saturandolo di gioventù.
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Marco Mottolese nasce a Reggio Calabria. Ha vissuto a Londra, Perugia e Milano e attualmente a Roma. In queste città si è diviso tra creatività e management utilizzando la scrittura come collante del suo lavoro. Ha pubblicato libri di poesia, racconti , un saggio a quattro mani sui graffiti urbani e periodicamente “presta la sua penna” per attività di ghost writing.
Ultimo aggiornamento: Venerdì 9 Aprile 2021, 14:46
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