Coronavirus, il governo teme per la sanità: «Bisogna evitare il collasso»

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di Alberto Gentili
L’altra notte, sull’agenda del Consiglio dei ministri, è stata segnata in rosso la data del 7 marzo. «Se quel giorno, quando saranno passate le due settimane di quarantena iniziate sabato 22 febbraio la diffusione del coronavirus si sarà arrestata o risulterà più contenuta, potremo finalmente considerare circoscritto il pericolo», ha spiegato il ministro della Salute, Roberto Speranza, «ma fino ad allora non possiamo abbassare la guardia, soprattutto nelle Regioni con il maggior numero di contagi: Lombardia, Emilia Romagna e Veneto».

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Da qui la decisione, concordata poche ore dopo con i governatori Attilio Fontana, Stefano Bonaccini e Luca Zaia, di tenere chiuse le scuole lombarde, venete ed emiliane per un’altra settimana. Via libera invece al ritorno degli alunni in classe in Piemonte (da mercoledì), Friuli e Liguria, con l’esclusione della provincia di Savona a causa del focolaio di Alassio e l’inserimento di Pesaro-Urbino. «E’ il primo passo verso una mitigazione delle misure, passando dal blocco di intere Regioni a una restrizione che riguarda singole Province o città», spiegano a palazzo Chigi. «Finalmente si può tornare gradualmente alla normalità, si percepisce la ripartenza: da sei Regioni bloccate, in una settimana siamo scesi a tre», tira un respiro di sollievo il responsabile degli Affari regionali, Francesco Boccia.
Nella lunga notte, con un Consiglio dei ministri cominciato alle nove di sera e terminato poco prima dell’una, il governo ha discusso a lungo per individuare il modo con cui raggiungere «il difficile equilibrio tra il principio della massima precauzione», che ha innescato la paralisi del Nord e il crollo del turismo, «e l’allentamento delle misure per permettere la ripartenza del Paese».
 
 


Economia inclusa. «Ci vogliono prudenza e precauzione, ma anche calma e lucidità per evitare di alimentare il panico», il leitmotiv scandito dal premier Giuseppe Conte e rilanciato dai ministri Roberto Gualtieri, Paola De Micheli, Lorenzo Guerini. «La comunicazione è essenziale, spiegare e tranquillizzare deve essere la nostra missione», ha aggiunto Vincenzo Spadafora. 
LA QUESTIONE VERA<QA0>
Non sono state ore facili. Dopo la relazione di Speranza sulla situazione epidemiologica, il governo ha dovuto prendere di petto la vera questione: il rischio del collasso del sistema sanitario nazionale, con la possibilità di non poter curare in modo adeguato (e dunque non riuscire a strapparle alla possibile morte) centinaia, se non migliaia di persone. «Dalla discussione è emerso in modo chiaro», racconta un ministro, «che l’epidemia si può fermare se il sistema di contenimento ispirato al principio della massima precauzione, le zone rosse per intenderci, funziona. Il vero obiettivo resta evitare l’espandersi del contagio. Questo per scongiurare che si ripetano, forse anche in modo più allarmante, le situazioni verificatesi negli ospedali di Cremona, Lodi e Piacenza, dove per qualche ora non è stato possibile garantire un’assistenza adeguata ai cittadini».
Insomma, per il governo il nodo è la tenuta del sistema ospedaliero, visto che il 15-20% di chi contrae il coronavirus ha bisogno di assistenza alla respirazione nelle sale di terapia intensiva. Il numero non è però illimitato: 5.300 posti letto in tutta Italia. «Senza contare», aggiunge un altro ministro, «che le cure non sono rapide, la durata del trattamento con ventilazione forzata si è rivelato lungo, come dimostra il caso dei due turisti cinesi ricoverati allo Spallanzani a inizio febbraio. Ora stanno bene, sono guariti, sono però dovuti rimanere in terapia intensiva dal 5 febbraio fino all’altro ieri. Ciò significa che il coronavirus si sconfigge, ma serve molto tempo. Dunque, se si dovesse verificare un’esplosione dei malati, gli ospedali collasserebbero. Per capire il rischio, basta pensare che l’influenza normale ha attualmente colpito in Italia 700mila persone, se accadesse lo stesso con il coronavirus che ha una capacità di contagio esponenziale, sarebbe un disastro».
Da qui la decisione, suggerita dal comitato tecnico-scientifico e confermata ieri mattina durante il vertice in teleconferenza con i governatori di Regione, di tenere alta la guardia. E di concedere un graduale ritorno alla normalità solo al Piemonte, alla Liguria e al Friuli, dove ci sono focolai infettivi limitati. «Tra una settimana vedremo se allentare ulteriormente le misure, speriamo che la diffusione dell’epidemia mostri un rallentamento significativo», ha incrociato le dita Conte.
IL CASO-DECRETO<QA0>
Il lungo Consiglio dei ministri era cominciato con l’analisi del decreto, presentato da Gualtieri, a favore delle zone colpite. Visto che alcuni articoli erano «in bianco», la ministra renziana Teresa Bellanova, ha preteso chiarimenti. E a ogni collega, il responsabile dell’Economia ha chiesto di portare il suo contributo per i settori di competenza. «E’ stato un lavoro di cesello, cose tecniche, tipo stabilire se il lavoratore in quarantena è da considerare in malattia. Ma nessun litigio», garantisce uno dei partecipanti alla maratona notturna. Resta il fatto che il decreto è stato approvato con la formula “salvo intese”. Dunque, va ancora completato. In più, ieri mattina, circolava una bozza del provvedimento senza alcuni articoli. E sono dovuti intervenire Conte e Gualtieri per sbrogliare il caos. Nel testo finale è comparsa anche una norma che definisce «inefficaci» le ordinanze dei sindaci «in contrasto con le misure statali».
Ultimo aggiornamento: Domenica 1 Marzo 2020, 02:13
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