Coronavirus fase 2, tamponi, contagi e terapie intensive: chi va fuori dai parametri chiude

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di Mauro Evangelisti
Tamponi in ritardo, positivi che aumentano cinque giorni di seguito, terapie intensive che tornano a riempirsi: ecco i punti deboli che rischiano di rovinare la fase due. «Se qualche regione fosse costretta a tornare al lockdown secco, sarebbe un disastro» dicono nei corridoi del Ministero della Salute. Il decreto di Speranza è molto rigoroso, prevede un sistema di 21 indicatori con cui giudicare, ogni settimana, l'andamento dell'epidemia, regione per regione. Dal tasso di occupazione dei posti letto a una possibile impennata dei contagi, saranno dati oggettivi a decidere chi deve chiudere. Ieri il ministro Roberto Speranza lo ha ribadito: «Vogliamo accelerare il più possibile ed il metodo di monitoraggio che abbiamo costruito sulle regioni ci consentirà anche di differenziare, a un certo punto può essere giusto immaginare di aprire di più i territori che sono più pronti e di avere più cautela in territori meno pronti». Il problema è che il sistema, con la cabina di regia nazionale che dovrà analizzare i dati, prevede anche immediate chiusure quando scatta l'allarme. Bene, quali sono gli elementi di rischio a partire da oggi, con le sia pur parziali riaperture?

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RITARDI
Prima di tutto, i tamponi. Fino ad oggi questo è stato il vero punto debole, forse con la sola eccezione del Veneto. Tra gli indicatori c'è l'obbligo di dimostrare che una Regione è in grado di effettuare gli esami molecolari per scoprire chi è positivo entro cinque giorni. Dalla Lombardia al Lazio (ma non solo), sono decine le testimonianze di contatti diretti di persone infettate o anche di sintomatici prigionieri in casa che non sono mai stati sottoposti ai tamponi. Lo scenario, va detto, sembra essere cambiato, si sta viaggiando, in Italia, a 50-60mila tamponi al giorno. «All'inizio - dicono dalla Regione Lazio - qualche difficoltà sui grandi numeri c'è stata, ma ora il sistema funziona, i tamponi si fanno». Altro elemento di criticità che rischia di mettere in crisi soprattutto le regioni del sud: i posti di terapia intensiva e i Covid-Hospital. Uno degli indicatori prevede che scatti l'allarme se oltre il 30 per cento dei posti di terapia intensiva per il coronavirus risultano occupati. In alcune regioni, come ad esempio la Calabria dove per fortuna il virus è circolato pochissimo, se le riaperture dovessero fare segnare un incremento di casi, il sistema potrebbe vacillare. La scelta di alcuni territori, come la Lombardia che ha rinunciato a 460 posti, di ridurre i letti aggiuntivi che erano stati previsti per i casi più gravi, potrebbe risultare poco lungimirante. Un altro elemento di rischio di ritorno al lockdown è l'aumento di nuovi casi positivi per cinque giorni consecutivi: ci sono due regioni in particolare sotto osservazione, la Liguria e il Piemonte. La Lombardia, dopo la tragedia vissuta da febbraio ad aprile, ora ha stabilizzato il numero dei nuovi contagi. In Piemonte, al contrario, c'è l'allarme rosso, con una crescita sempre superiore alla media nazionale: venerdì era dell'1,9 per cento, ieri dello 0,9; ha superato l'Emilia-Romagna come casi totali e sembra non riuscire a frenare la diffusione del virus. Rischia anche di pagare un giudizio negativo sulla tempestività dei tamponi: è la seconda regione in Italia per numero di positivi, ma ha fatto meno tamponi di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna; logico pensare che il numero di positivi non ancora individuati sia assai alto. La Liguria venerdì ha addirittura avuto un incremento del 2,1 per cento. Dalla Regione però ribattono: «Non c'è un caso Liguria, il nostro incremento appare così alto solo perché abbiamo scelto di effettuare test sierologici, a cui seguono i tamponi, a tappeto nelle Rsa. In questo modo, troviamo più positivi, ma il sistema è in sicurezza, gli ospedali si stanno svuotando».
Ultimo aggiornamento: Lunedì 4 Maggio 2020, 13:27
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