Lettera di un medico veneto dal reparto Covid: «Tutto ciò che avevo imparato del mio mestiere non esiste più, vi spiego perché dovete stare a casa»

Lettera di un medico veneto dal reparto Covid: «Tutto ciò che avevo imparato del mio mestiere non esiste più, vi spiego perché dovete stare a casa»

Covid-19, lettera medico veneto inviata a Il Gazzettino.

Sono un medico. E in queste settimane tutto ciò che avevo imparato del mio mestiere non esiste più. I lunghi colloqui con le famiglie, il condividere insieme i passaggi più dolorosi, l'accudimento del malato insieme a loro. Nulla di tutto questo esiste più. Esistono pazienti soli, che spesso non possono nemmeno parlare al telefono, perché bloccati dentro al casco della C-PAP, o perché sono anziani e semplicemente il cellulare non hanno mai imparato a usarlo. E allora. Allora se la giornata non è troppo massacrante, se ti avanzano quei due minuti preziosi, magari vai al letto di quel malato, e componi tu il numero del figlio, o della moglie, e sostieni il telefono mentre nello schermo, salvifico e commovente, appare finalmente il volto dell'amato.

Ma per la maggior parte del tempo restano soli. E si tengono le proprie paure, di morire, di finire in rianimazione. Stanno lì dentro quel casco, tutto il mondo fuori. Anche i giovani, che spesso hanno i bambini a casa che li aspettano. Poi ci sono i coniugi che sono finiti entrambi in ospedale, in reparti diversi, e non hanno notizie l'uno dell'altra. Oppure scoprono che il compagno non ce l'ha fatta. E restano lì, nel proprio letto, a fare i conti con una marea montante di dolore che mai troverà uno spazio dove posarsi.

Ed io, e noi, che ci ritroviamo a telefonare alle famiglie a casa, e che mai, mai avremmo pensato, quando abbiamo prestato il nostro giuramento di Ippocrate, che avremmo dato certe notizie per telefono. Che per autorizzare un figlio a tenere la mano della loro madre morente dobbiamo chiedere l'autorizzazione della direzione sanitaria che spesso non arriva, perché i camici non sono abbastanza. O perché i figli stessi sono in quarantena a casa. O se non lo sono, perché hanno paura di entrare nei reparti Covid. E porteranno per sempre con sé il peso di non esserci entrati, il peso di tutto un sistema di valori che è saltato. Persino l'empatia è un lusso. E nemmeno possiamo onorare i nostri morti. Soli. Tutti soli.

Eppure. Nel momento di massima solitudine che stiamo vivendo non siamo mai stati così poco soli. Il senso di parole come collettività, responsabilità civile, sepolte da decenni di idiozia e superficialità, stanno tornando nelle nostre discussioni. Nelle nostre riflessioni di lunghe serate in casa.

Io lo vivo nel mio ospedale, durante questi turni massacranti in cui non riusciamo né a bere né a passarci una mano sulla fronte, gesti comuni che ci sono vietati. Siamo tutti uguali, in questi giorni. Astronauti blu indistinguibili gli uni dagli altri. Così abbiamo preso a riconoscerci dagli zoccoli, o scriviamo il nostro nome col pennarello. Rischiamo continuamente di dire ad un primario di andare a lavare un paziente o ad un assistente sanitario di visitare un malato. Perché nessuno di noi sta lavorando con i propri colleghi. Tutti lavorano con tutti. Non esistono più reparti di appartenenza, non più i nostri ambulatori, non più la nostra attività elettiva ridotta al minimo. Un esercito blu. Anche questo è un bell'insegnamento. L'azzeramento delle differenze. Non solo il virus non guarda in faccia a nessuno, forse anche noi ne siamo capaci. E magari solo alla fine del turno, quando finalmente ci svestiamo, scopriamo il volto delle persone con cui per ore abbiamo lavorato gomito a gomito, aiutandoci e sostenendoci.

Ecco perché dobbiamo stare tutti a casa. Perché il sistema deve reggere, e dobbiamo potere dare il massimo dell'assistenza a chi ne ha bisogno. E' una questione di numeri. La responsabilità civile di ciascuno è di non ammalarsi. Poco importa se per noi sarà solo un raffreddore, perché nel frattempo avremo potuto contagiare qualcuno che avrà bisogno di una terapia intensiva. Eccolo, il senso della collettività. Non è, come qualcuno ha detto, una egoistica lotta per la sopravvivenza. E' esattamente il contrario. La dimostrazione che la collettività ha un senso, che la rinuncia ad una parte della nostra libertà personale porta ad un bene superiore. Anche per noi. Perché adesso abbiamo l'occasione drammatica e spero irripetibile di comprendere ciò che per secoli filosofi e pensatori hanno tentato di farci capire. La semplice verità che ognuno di noi starà bene solo se staranno bene anche gli altri.

M.V.

una dottoressa veneta
Ultimo aggiornamento: Giovedì 26 Marzo 2020, 10:34
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