Cate Blanchett: «Produco una serie dare voce a chi non sembra avere un futuro»

Cate Blanchett: «Produco una serie per dare voce a chi non ha futuro»

di Alessandra De Tommasi
«Mi sento un’impostora in continuazione»: Cate Blanchett, cinquant’anni portati con infinita grazia e due Premi Oscar all’attivo, sa come spiazzare. Super ospite di Berlinale Series, la sezione del festival tedesco dedicato ai racconti seriali, spiega come il lavoro per l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati le abbia cambiato totalmente la percezione di se stessa. Un po’ come se si fosse messa allo specchio e si sentisse fuori posto: «A volte mi guardo e penso di essere un’outisider, una che ha bisogno di prospettiva nel trovare se stessa. Come un fotografo che è fuori e dentro una scena o un attore teatrale che è al tempo stesso sul palco ma anche distante».

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Metafore a parte, questa australiana dallo sguardo felino si è appena lanciata in una miniserie, Stateless, assieme al marito sceneggiatore Andrew Upton: ne è creatrice, produttrice e anche interprete. Ambientato in un centro di detenzione per immigrati, segue le vicende di quattro personaggi molto diversi tra loro.
E lei?
«Io non volevo recitarci, decisa a concentrarmi sul dietro le quinte, ma per ottenere i finanziamenti ci devi mettere la faccia e allora eccomi qui, a cantare e ballare per esigenze di copione».
Come le è venuto in mente il progetto?
«Dicono che noi artisti siamo liberali, come se fosse un’offesa, ma io lo considero un complimento. Non possiamo stare a guardare davanti a storie di disumanità e a persone che vengono usurpate di ogni dignità. Costruiamo barriere per tenere fuori gli altri e ci dicono che è per rendere una nazione di nuovo grande, ma grande per chi? Ancora non l’ho capito».
Sembra parecchio arrabbiata.
«Lo sono: nel mondo si moltiplicano i regimi corrotti dal potere e mi chiedo spesso: esiste ancora almeno una vera democrazia?»
Chi è lo “stateless” del titolo?
«Un individuo che non ha cittadinanza, quindi senza passaporto per viaggiare o copertura sanitaria o diritto all’istruzione, in pratica un invisibile senza futuro».
Lei ne ha conosciuti molti?
«Tanti, nei vari campi che ho visitato in Libano o in Giordania, fin da quando nel 2014 ho iniziato a lavorare con le Nazioni Unite, lo stesso periodo in cui mi è venuta in mente l’idea della serie in questo centro di detenzione nel mezzo del deserto, un non luogo per chi è privato dell’identità».
Sul tema dell’immigrazione il mondo si divide. E lei?
«I social media tendono a trasformare le problematiche sociali in slogan e ad incrementare una certa polarizzazione delle idee quando invece serve ascoltare e capire. In questo l’audiovisivo aiuta molto perché parla a tutti in maniera diretta e si pone domande».
Com’è messa l’Australia su questo fronte?
«Siamo un melting pot, una colonia nata nella diversità e dobbiamo preservarla a tutti i costi. Siamo tutti umani e uguali, smettiamo di guardare alle differenze invece di valorizzarle».
 
Ultimo aggiornamento: Martedì 25 Febbraio 2020, 08:07
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