Cate Blanchett: «Produco una serie dare voce a chi non sembra avere un futuro»
di Alessandra De Tommasi
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Metafore a parte, questa australiana dallo sguardo felino si è appena lanciata in una miniserie, Stateless, assieme al marito sceneggiatore Andrew Upton: ne è creatrice, produttrice e anche interprete. Ambientato in un centro di detenzione per immigrati, segue le vicende di quattro personaggi molto diversi tra loro.
E lei?
«Io non volevo recitarci, decisa a concentrarmi sul dietro le quinte, ma per ottenere i finanziamenti ci devi mettere la faccia e allora eccomi qui, a cantare e ballare per esigenze di copione».
Come le è venuto in mente il progetto?
«Dicono che noi artisti siamo liberali, come se fosse un’offesa, ma io lo considero un complimento. Non possiamo stare a guardare davanti a storie di disumanità e a persone che vengono usurpate di ogni dignità. Costruiamo barriere per tenere fuori gli altri e ci dicono che è per rendere una nazione di nuovo grande, ma grande per chi? Ancora non l’ho capito».
Sembra parecchio arrabbiata.
«Lo sono: nel mondo si moltiplicano i regimi corrotti dal potere e mi chiedo spesso: esiste ancora almeno una vera democrazia?»
Chi è lo “stateless” del titolo?
«Un individuo che non ha cittadinanza, quindi senza passaporto per viaggiare o copertura sanitaria o diritto all’istruzione, in pratica un invisibile senza futuro».
Lei ne ha conosciuti molti?
«Tanti, nei vari campi che ho visitato in Libano o in Giordania, fin da quando nel 2014 ho iniziato a lavorare con le Nazioni Unite, lo stesso periodo in cui mi è venuta in mente l’idea della serie in questo centro di detenzione nel mezzo del deserto, un non luogo per chi è privato dell’identità».
Sul tema dell’immigrazione il mondo si divide. E lei?
«I social media tendono a trasformare le problematiche sociali in slogan e ad incrementare una certa polarizzazione delle idee quando invece serve ascoltare e capire. In questo l’audiovisivo aiuta molto perché parla a tutti in maniera diretta e si pone domande».
Com’è messa l’Australia su questo fronte?
«Siamo un melting pot, una colonia nata nella diversità e dobbiamo preservarla a tutti i costi. Siamo tutti umani e uguali, smettiamo di guardare alle differenze invece di valorizzarle».
Ultimo aggiornamento: Martedì 25 Febbraio 2020, 08:07
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