Federico Moccia: «Adolescenti iperconnessi? Colpa dei genitori che stanno troppo sui social»

Federico Moccia: «Adolescenti iperconnessi? Colpa dei genitori che stanno troppo sui social»

di Marco Castoro
Tre metri sopra il cielo, Ho voglia di te e l’ultimo capitolo Tre volte te sbarcano in America. Una grande soddisfazione per Federico Moccia, scrittore, sceneggiatore e regista, autore dei romanzi che poi sono diventati film di successo (hanno lanciato Riccardo Scamarcio). Ha raccontato storie di tanti adolescenti. Di recente è tornato al cinema con Non c’è campo, le vicende di una scolaresca in gita che si ferma per giorni in un paese dove il cellulare non prende. Un dramma. Fidanzati, amici, genitori, video, messaggi e selfie da trasferire sui social: improvviso blackout. Si va avanti alla ricerca della tacca perduta.  

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Moccia, cosa sta facendo di bello?
«In questi giorni sto in vacanza».
Dove?
«A Rodi. C’ero stato a 16 anni. Ci sono tornato con i miei figli per vedere l’effetto che fa».
Che età hanno i suoi figli?
«8 e 6 anni. Quindi ancora posso stare tranquillo».
Già perché gli adolescenti sono un vero rebus. Che idea si è fatto di quelli di oggi?
«Sono super multitasking. Non si fermano mai. Vivono tra mille dispersioni. Noi quando andavano al cinema si guardava il film e basta. Loro contemporaneamente guardano il film, telefonano, scattano foto, mandano messaggi, scrivono agli amici. Stanno in connessione continua».
Ma oltre a digitare pensano?
«Certo. La connessione fa parte di questa nuova generazione che seppure criticata trova espressioni e sentimenti. Si provano delusioni, amore, dolori. Non hanno i confini che avevamo noi. Nel bene e nel male sono senza confine».
Rispetto alla generazione dei lucchetti sono diversi?
«Sono passati 12 anni. Un abisso. Valgono 100 anni di differenza. È cambiato tutto. Il fenomeno dei lucchetti è ancora vivo in tutto il mondo. L’altro giorno ho incontrato a Ponte Milvio due settantenni che hanno buttato la chiave nel Tevere dopo aver imprigionato il loro amore».
Avevano letto il libro o visto il film. 
«No, mi hanno risposto perché porta bene. I 14enni di allora oggi hanno 26 anni e sono completamente diversi dai 14enni di oggi».
Comunque i giovani non sembra abbiano voglia di fare sacrifici. Vogliono tutto e subito.
«Questo è vero fino a un certo punto. Perché quando trovano una strada, che seppure facendoli faticare gli permette di guadagnare qualcosa ed essere considerati, si buttano a capofitto nell’impresa. Il loro principale timore è quello di trovarsi in una società che li deluda, che non dia loro affidamento. Che promette un posto e non lo mantiene, che li fa partecipare a uno stage ma poi non li fa crescere. Si sentono traditi da chi comanda. Anche dai politici, che non sono più credibili».
La politica? Ma se non hanno neanche un’ideologia.
«Perché non la trovano. Non hanno più un punto di riferimento credibile. Tutti sbagliano, è lecito. Ma si può sbagliare con coscienza, senza però quei favoritismi che ti fanno perdere credibilità. Le inchieste delle Iene sulla corruzione sono mazzate. Bisogna credere nei giovani perché tra loro ce ne sono tanti che studiano, che si perfezionano con esperienze all’estero, che hanno le qualità per diventare una buona classe dirigente del domani».
Il rapporto con i genitori spesso è conflittuale.   
«Un tempo c’era un divario. Oggi il genitore gioca alla play station col figlio e fa di tutto per batterlo, perché è in competizione e vuole vincere. Si veste come lui o lei, va in motorino, vuole essere più giovane del figlio».
Nascono contrasti per queste situazioni?
«Certo. È importante che un genitore sappia cambiare ruolo, aspetto, deve far sentire i suoi no. E soprattutto deve saper raccontare anche i suoi errori, i fallimenti, quello che avrebbe voluto fare e non c’è riuscito, il lato umano. Io ho imparato molto da mio padre (Pipolo ndr). Per me è stata un aiuto per crescere».
E invece oggi il genitore ha paura di sembrare uno sfigato.
«E carica i ragazzi di troppe aspettative, intaccando la loro serenità e la bellezza di crescere sbagliando. Se prendi un 3 a scuola non devi abbatterti, non ci si può ammazzare per un brutto voto. Ti deve dare fastidio sì, ma quel 3 deve essere costruttivo per migliorare».
Però oggi abbiamo visto perfino i ragazzi picchiare i prof per un voto!
«Ricordo che avevo un prof che mi prendeva a ceffoni ogni volta che sbagliavo. E lo faceva davanti a tutti: “Moccia guarda che hai scritto” e come te lo ricordavi quell’errore! Non lo commettevi più. E non ti saltava in mente mai di dire ai tuoi genitori di aver preso un ceffone».
E i social? Non hanno invaso il campo e tolto spazio al dialogo?
«Vanno presi con sufficienza senza farli diventare una dipendenza sociale. Sono fuori luogo quelle ragazze che si fanno le foto davanti allo specchio per ottenere i like. Mi piacciono le condivisioni. Mentre non sopporto l’odio e la cattiveria dei leoni della tastiera. Ma del resto l’Italia è una repubblica fondata sull’invidia».
Spesso i genitori stanno sui social più dei figli.
«È una vera ossessione. Perché non sono riusciti a crescere. Dovrebbero dialogare di più con i figli, scoprirne la bellezza, far leggere un libro per aprire la mente. Perché anche una cazzata ti fa ragionare e crescere. Invece non parlano coi i figli ma scrivono e chattano sui social con uno sconosciuto».
Ultimo aggiornamento: Martedì 7 Agosto 2018, 16:31
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