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«Traspare ancora una pericolosa incrostazione culturale che induce alcuni protagonisti del processo a pensare che la difesa debba passare sempre per una vivisezione culturale e anamnestica della vittima fino a coglierne l'aspetto peggiore», evidenzia Roia. «In questo caso il giudice ha doverosamente impedito il compimento di questa impropria tentazione, garantendo quel rispetto diffuso che dovrebbe sempre orientare le condotte di chi per professione tratta di sofferenza umana».
Roia invoca «interventi strutturali che obblighino gli attori del processo, dagli avvocati ai magistrati, a una formazione tecnica e culturale: una specie di abilitazione che valuti capacità e competenze.
E che preveda, nel caso di violenza giudiziaria nel processo penale, delle responsabilità deontologiche e disciplinari. Se una vittima dovesse incontrare avvocati e giudici che la sottopongono a un processo personale dovrebbe denunciare le violenze in toga a tutti gli organismi in grado di sanzionare chi questo processo ha imbastito».
Ultimo aggiornamento: Giovedì 15 Febbraio 2018, 13:33
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