Wicky Priyan, lo chef: «Non puoi cucinare se non apri la mente»

Wicky Priyan: «Non puoi cucinare se non apri la mente»

di Rita Vecchio
Un quasi giapponese a Milano. Wicky Priyan, che oramai parla l'italiano sempre meglio, ha conquistato con il suo Wicky's Wicuisine, locale a due passi dal Duomo, anche i palati più raffinati. La passione di quando si mette a raccontare la sua storia, è la stessa che si trova nei suoi piatti.

Che ci fa in Italia?
«Faccio quello che ho sempre sognato: cucino».
È ai fornelli da quando?
«Siccome mi piace mangiare bene, posso dire da sempre? Mia madre mi portava con lei in cucina ed è diventata presto la mia stanza giochi. Il viaggio mi ha aiutato ad aprire la mente. La mia è una famiglia di diplomatici e da piccolo mi sono trasferito dallo Sri Lanka in Giappone».
E poi?
«Ho iniziato a studiare tanto. In Giappone ho imparato le tecniche più difficili. Consideri che lì usano solo cinque ingredienti base: zucchero, sale, soia, sake, mirin».
Non tutti li ha trovati in Europa.
«Mi sono abituato, senza però abbandonare tecniche di vapore e di cottura».
La passione per l'Italia?
«Venivo quasi ogni anno con i miei genitori in vacanza. L'ho girata molto. Spesso andavamo a Marzamemi in Sicilia. Ho assaggiato piatti, scoperto ingredienti. Della Sicilia la mia cucina ha qualcosa: i gamberi rossi, capperi di Salina, olio di oliva».
Il piatto più strano che ha mangiato?
«La cacio e pepe. Mi fa ricordare il passato e mia madre. Ne vado matto».
La Wicky's cucina in tre parole?
«In tre tecniche: francese, giapponese e italiana».
Ultimo piatto?
«Il Ramen rivisitato con gambero rosso, brodo di pollo e noodles con farina di grano tenero e uovo. Dieci anni fa nel distretto di mia moglie, Tsurumi, ho scoperto il Kashimaya, un ristorante gestito da Yoshida Murakami. Ho mangiato talmente bene che ci sono tornato per tre giorni di fila, insistendo nel volere imparare la tecnica del Ramen. Finché l'anziano maestro ha ceduto. Sa a che ora mi sono dovuto presentare per iniziare? Alle 2 del mattino. A lui dedico questo piatto».
La soddisfazione più grande?
«Aver ottenuto la stima e le amicizie di chef italiani. Vengono qui a trovarmi Gennaro Esposito, Carlo Cracco, Andrea Berton. Non pensavo potesse accadere. È bellissimo. Mi commuove».
Una cosa brutta dell'Italia?
«La burocrazia».
E una cosa bella?
«Siete molto socievoli».
Tornerebbe in Giappone?
«Sì. Un giorno vorrei aprire lì un ristorante».
Un consiglio a chi vuol fare lo chef?
«Aprire la mente. Se non apri la mente, la cucina non arriva».

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Ultimo aggiornamento: Giovedì 14 Febbraio 2019, 18:16
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