Tempio di Cupra giallo e blu come a Pompei

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Pareti a grandi riquadri, dove il giallo dello zoccolo faceva da contrasto al rosso intenso e al nero della fascia centrale, le tinte unite intervallate da delicati decori di fiori e candelabri, le nicchie per le statue e forse persino l'altissimo soffitto illuminati da un azzurro intenso come un cielo d'agosto. Costruito agli albori del primo secolo d.C. quando su Roma regnava Augusto, il grande tempio romano di Cupra, nel Piceno, fu nella sua prima fase di vita riempito di colori e di immagini in III stile pompeiano, con le stesse cromie e gli stessi decori che all'epoca facevano bella mostra di sé nelle case più ricche di Roma e di Pompei. È la scoperta, inaspettata e straordinaria -racconta in esclusiva all'ANSA l'archeologo Marco Giglio dell'Università di Napoli- che arriva dal sito archeologico marchigiano, dove una missione dell'Orientale, in collaborazione con soprintendenza e comune di Cupra Marittima, ha intrapreso una nuova campagna di ricerca. «I templi con l'interno della cella decorato da pitture sono rarissimi», fa notare Giglio, «fino ad oggi se ne conosceva uno solo in III stile, quello della Bona Dea a Ostia oltre al criptoportico del santuario di Urbis Salvia, sempre nelle Marche e il tempio di Nora in Sardegna». In quest'angolo delle Marche, non lontano dal mare e a poca distanza da dove gli etruschi nel VI sec. a C. avevano gestito un santuario dedicato ai commerci, racconta accanto a lui il direttore scientifico dello scavo Fabrizio Pesando dell'Orientale di Napoli, i romani si erano insediati intorno al I sec. a C., con un municipio poi promosso al rango di colonia. Abitata dalle famiglie degli eserciti di Marcantonio e Ottaviano e dai loro discendenti, Cupra , che aveva preso il suo nome proprio dalla divinità di quel tempio (per lo storico Strabone Cupra è un altro nome di Hera) era in quei decenni una cittadina fiorente, con un foro e il grande santuario di cui oggi resta purtroppo molto poco, ma che proprio gli scavi delle scorse settimane hanno permesso in qualche modo di ricostruire. Almeno nella sua forma e nelle due fasi della sua vita, sottolineano Giglio e Pesando. Perché più o meno cent'anni dopo la sua fondazione, nel II sec.d. C., una serie di problemi statici resero indispensabile un suo restauro radicale.