Trentasei anni fa, oggi, ci svegliammo tutti in un incubo. Portato dal vento che incurante della Cortina di Ferro trascinava sui nostri cieli la nube di Chernobyl. Quello che è il più grande disastro nucleare della storia si era consumato nella notte appena trascorsa, in un villaggio a nord di Kiev, al confine con la Bielorussia, che confine non era perché era tutta Unione Sovietica. All’1,23 ora locale il coperchio del reattore 4 saltò in aria, durante un test andato storto nella centrale nucleare che era un gioiello dell’ingegneria dell’Urss. Al villaggio di Pripjat non ne sapevano nulla, si assiepavano su un ponte a guardare la nube arancione sopra la centrale. Lo chiamano il ponte della morte perché chi quella notte guardò, morì in poche settimane.
È come se fossero esplose 400 bombe di Hiroshima, quella notte a Chernobyl, si stima oggi. Il costo di vite umane è spalmato negli anni ed è difficile da calcolare: un numero tra 4000 e 20mila vittime di cancro alla tiroide solo nei villaggi più vicini, ma alcune stime parlano di più di 90mila. L’Unione Sovietica insabbiò tutto, la verità e i morti. La zona è radioattiva ancora oggi. Foresta rossa, si chiama.
Ultimo aggiornamento: Martedì 26 Aprile 2022, 07:24
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