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Alla premier Tory non è stato sufficiente mettere sul piatto la sua testa e la sua poltrona di qui a qualche mese; né offrire alla Camera dei Comuni di scorporare e rivedere più avanti la dichiarazione politica sulle relazioni future con Bruxelles. Il no al suo accordo è stato confermato dai deputati anche nella versione da «ultima chance» sottoposta oggi. A favore, dopo le due precedenti bocciature a valanga, stavolta si sono pronunciati in 286, contro 344: ossia 58 in più.

Non è stato il bagno di sangue di gennaio, quando il governo di Sua Maestà aveva rimediato la peggiore disfatta parlamentare della storia con uno scarto umiliante di 203 voti. Ma non è stato neppure il testa a testa che qualche ministro pronosticava: i no sono arrivati anche da 34 conservatori (quasi tutti brexiteer ultrà) e dai 10 alleati unionisti nordirlandesi, non compensati da una decina scarsa fra laburisti ed ex laburisti dissidenti eletti in collegi pro Leave.
E comunque poco importa. La sconfitta resta sconfitta e questa volta non sembra avere davvero rimedio: se non altro perché fa decadere ipso facto il rinvio al 22 maggio che il Consiglio europeo aveva concesso a patto che l'intesa fosse approvata entro oggi. E lascia Londra di fronte alla scadenza secca del 12 aprile, ossia del mini rinvio (rispetto al termine originario del 29 marzo) entro cui la premier o chi per lei dovrà decidere se optare per il temutissimo addio senz'accordo (no deal) o ripresentarsi con il cappello in mano e uno straccio di nuova strategia convincente per cercare di ottenere l'unanimità dei 27 su un'estensione lunga fino a due anni: destinata peraltro a obbligare nel caso il Regno Unito al paradosso inevitabile di dover partecipare alle elezioni europee di maggio a tre anni dal referendum pro Brexit.


Corbyn si aggrappa peraltro ancora all'idea di ridare «il controllo al Parlamento», fallita due giorni fa, ma che potrebbe essere riportata a galla lunedì nei 'voti indicativì di ballottaggio fra i piani B trasversali andati più vicini alla maggioranza: con in pole position quello per una Brexit soft (con permanenza nell'unione doganale); e di rincalzo quello più contrastato di un secondo referendum confermativo.

Nel frattempo, comunque, l'orologio continua a correre. E Bruxelles si prepara al peggio convocando un vertice straordinario per il 10 aprile, come annuncia Donald Tusk. Il presidente del Consiglio europeo lascia aperto uno spiraglio a May per presentarsi con un piano nuovo, ma «ora il no deal è lo scenario più probabile», ammettono fonti della Commissione. Uno scenario che lascia «sconvolti» la Confindustria e gran parte del business d'oltremanica, deprimendo la sterlina.
Ma che alcuni ministri dell'ala dura del governo May non esitano a intimare a una premier ridotta in ginocchio. Incoraggiati da una piazza che persino nel cuore pro Remain di Londra - invaso sabato scorso dal milione di sostenitori d'un referendum bis - si colora improvvisamente, al grido di 'Brexit now', con le bandiere di decine di migliaia di manifestanti anti-Ue. Estrema destra inglese inclusa. Avanguardia di un popolo più sotterraneo, e talora minaccioso, ma che non appare destinato a scomparire dalla urne, qualunque cosa accada.
Ultimo aggiornamento: Sabato 30 Marzo 2019, 07:25
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