Sortite anti-pass/ L’azzardo dei docenti che ignorano la scienza


di Carlo Nordio

Tutti conoscono la storia di Apelle e del suo monito: «Ne ultra crepidam sutor!». Un ciabattino (sutor, appunto) osservando un personaggio dipinto dall’artista, aveva notato un difetto nella riproduzione di un sandalo e l’aveva fatto presente all’autore. Con la modestia del saggio, Apelle corresse il particolare nel senso indicatogli. 

Inorgoglito dal successo, il calzolaio cominciò a criticare anche il ginocchio. Al che il Maestro, tra lo stizzito e il bonario, lo ammonì nel modo di cui sopra: «Non andare oltre il sandalo, ciabattino!». Che tradotto in termini più diretti, significa che ognuno deve parlare delle cose che sa. 

L’appello sottoscritto da numerosi docenti universitari contro l’obbligatorietà del Green pass per l’accesso agli atenei, ci ricorda, sia pure con l’ornamento della sua parenetica solennità accademica, la storia di Apelle, alla quale siamo peraltro da tempo abituati. In effetti è consuetudine che le categorie più diverse sfornino proclami, non per esprimere le loro legittime idee, ma con intento pedagogico ed esortativo, su materie loro estranee. 

Gli stessi scienziati che per primi dovrebbero essere dotati del dubbio, faro del saggio, amano spesso esibire una mano rampante in campo altrui. Un illustre matematico disse che Dio era un algoritmo; una nota astronoma, guardando le stelle, cioè appena fuori della porta di casa, affermò che non c’era spazio per il Padre Eterno. E potremmo continuare. 

Perché questa sortita di autorevoli ermellini ci ricorda, con tutto il rispetto, quella del ciabattino? Perché la giustificazione che ne è stata data, o che almeno è stata riportata dalla stampa, poggia su un’argomentazione che ignora la scienza medica, la ricerca sperimentale e l’applicazione clinica, per rifugiarsi nel principio, giuridicamente infondato, che il certificato di accesso sarebbe una limitazione discriminatoria, e persino contraria alla Costituzione. 
Quest’ultimo è, ovviamente, un errore da matita blu. Non solo perché esistono già vaccini obbligatori, di cui nessuno ha mai contestato la legittimità; non solo perché esistono centinaia di limitazioni alle nostre libertà, normativamente disciplinate; non solo perché i loro controlli sono demandati ai più diversi titolari di attività private, come un tempo le maschere del cinema e oggi i baristi e i tabaccai quando esaminano i documenti dei sospetti minori; ma perché l’ articolo 32 della Costituzione prevede proprio che, con riserva di legge, si possa essere «obbligati a un determinato trattamento sanitario».

Quanto all’aspetto discriminatorio, non possiamo che ricordare quanto detto dal Presidente Mattarella, dal premier Draghi e persino dal Sommo Pontefice: qui non si tratta di limitare le nostre libertà, ma di tutelare il diritto collettivo alla salute contro il pericolo del contagio.

Vorremmo aggiungere che il Green pass non è nemmeno un obbligo nel suo senso genuino, «di determinazione specifica del dovere».

Esso è invece un requisito per accedere a determinate situazioni, nelle quali il potenziale infetto può danneggiare gli altri. È come per gli occhiali del miope. Nessuno lo costringe a procurarseli, ma se vuole guidare l’auto deve indossarli, per evitare una catastrofe: e questo non lo decide un consesso di dotti accademici, ma un bravo oculista.

Ecco perché in questo caso il principale se non unico interlocutore della politica è la scienza, che malgrado i suoi limiti è, come la democrazia, il meno peggio degli strumenti disponibili. Essa ci aveva già avvertito che il virus rischiava di diffondersi in modo incontrollabile attraverso le varianti, e in effetti l’alfabeto greco sta progressivamente avanzando: la delta si è dimostrata più invasiva dell’alfa, e pare si stia profilando la variante lambda. L’unica speranza di non arrivare all’omega, che come si sa rappresenta, nelle steli funerarie, il momento finale, è proprio la vaccinazione. 

Vi è infine un altro argomento che abbiamo ascoltato, se non da questi illustri accademici, da altri titolati maestri: che non sappiamo quali possano essere gli effetti, tra cinque o dieci anni, dei vaccini. 

Questo è un singolare modo di interpretare il dubbio di Amleto, che preferiva tribolare sotto il fardello di una vita gravosa piuttosto che avventurarsi, «con un semplice pugnale», verso mali sconosciuti. L’infelicissimo principe confrontava i dolori certi della nostra esistenza temporanea con quelli eterni della dannazione del suicida, e preferiva tenersi i primi piuttosto che rischiare i secondi. 

Qui è l’opposto. Se c’è una certezza su cui concordano tutti gli addetti ai lavori, anche quelli che fino a ieri litigavano sull’utilità delle mascherine e del lockdown, sulla presenza costante del virus o sulla sua scomparsa nella clinica e su mille altre questioni, ebbene questa certezza è rappresentata dal vaccino: unico e confermato strumento contro la diffusione del contagio, e soprattutto contro l’aggravamento o la morte di chi ne venisse comunque colpito.
Rinunciare a un beneficio certo e attuale per evitare un danno incertissimo e futuro, significa incorrere nella follia di Amleto, senza nemmeno averne quella logica o quel metodo che Polonio gli attribuiva.
 


Ultimo aggiornamento: Giovedì 9 Settembre 2021, 00:10
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