Le proteste che mettono a rischio la democrazia


di Romano Prodi

Ci sono voluti ben quattro giorni per constatare la vittoria di Joe Biden, anche se non si spengono le violente proteste dello sconfitto. Eppure Biden ha largamente prevalso su Trump nel voto popolare, distanziandolo di un buon 5%.Il fatto che il sistema elettorale americano divida la competizione nazionale fra i diversi Stati e premi il voto rurale rispetto al voto urbano può sembrare ingiusto, ma non sorprende.


Basta infatti ricordare che, nelle più recenti elezioni, Hillary Clinton aveva ottenuto quattro milioni di voti in più del suo rivale, ma Trump è diventato presidente degli Stati Uniti. Il rispetto delle regole, perfette o imperfette, è il fondamento di ogni sistema politico.
La gravità di quanto è avvenuto in questi giorni negli Stati Uniti sta proprio nel fatto che la ribellione di Trump di fronte al risultato elettorale mette in crisi questa regola fondamentale. Tutto ciò sta avvenendo nel Paese che è sempre stato il leader della democrazia e accade in un periodo storico in cui i governi democratici stanno arretrando quasi ovunque.

Eppure, per un lungo periodo di tempo, a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, il trionfo della democrazia sembrava inarrestabile. Proprio sotto la spinta iniziale degli Stati Uniti, a cui si sono progressivamente associati i Paesi europei, i governi costruiti sul suffragio universale hanno progredito ovunque. Ogni anno i bollettini dell’Onu ci informavano della continua ascesa del numero dei Paesi che, in modo più o meno corretto, affidavano il loro futuro al risultato delle elezioni.


Tanto diffusa era la fiducia nella democrazia che divenne comune opinione che tutti gli Stati, a partire dalla Cina, ne avrebbero prima o poi seguito l’esempio.


Col progredire del nuovo secolo questo cammino ha invertito la sua direzione: le guerre spacciate come necessarie per esportare la democrazia, l’aumento delle diversità e delle ingiustizie, i numerosi casi di corruzione e la trasformazione della competizione politica in lotta personale hanno progressivamente indebolito il fronte democratico in tutto il mondo.
Il desiderio di autoritarismo si è diffuso in ogni direzione: dalle Filippine a numerosi Paesi asiatici, dalla Russia alla Turchia, fino al Brasile e all’Africa, dove sono ormai quotidiane le tensioni causate dai leader in carica che vogliono rimanere al potere oltre i limiti previsti dalle costituzioni del loro Paese.


Ciò si accompagna a una crescente critica nei confronti dei meccanismi elettorali, accusati di essere ormai dominati dalla quantità del denaro impiegato e dalla potenza di fuoco dei vecchi e dei nuovi media. 


Tutto questo processo sembra essersi concentrato nell’ultima campagna elettorale americana, nella quale il tema dominante è stato la demolizione della personalità del candidato concorrente, a cui si è aggiunta l’insinuazione che l’andamento elettorale potesse essere addirittura determinato dal sostegno di potenze straniere.

Si è quindi preparato il clima per cui i risultati elettorali sarebbero stati non credibili, in quanto frutto di comportamenti criminali, non importa se originati in patria o all’estero.


In quest’atmosfera avvelenata, il ristretto margine dei risultati di diversi Stati dell’Unione ha permesso a Donald Trump di aprire un conflitto che non solo sta ulteriormente spaccando il Paese, ma demolisce in tutto il mondo la già declinante fiducia nel funzionamento della democrazia.


Sono già stati scritti milioni di pagine per spiegare perché gli Stati Uniti sono arrivati a un confronto così conflittuale e divisivo. Un confronto esasperato dalla paura di una grande parte della classe media di perdere il lavoro e il benessere per colpa della nuova globalizzazione, dalla paura della provincia meno colta di essere emarginata da una élite percepita come estranea e, soprattutto, dalla constatazione della popolazione bianca non privilegiata di trovarsi ormai in minoranza di fronte al crescente numero dei cittadini di colore e dei nuovi immigrati.


Nonostante il dramma di questi ultimi giorni, non solo mi auguro ma sono certo che la plurisecolare democrazia americana sarà ancora una volta in grado di ricostituirsi. Un Paese nel quale 150 milioni di cittadini si esprimono col voto è un grande Paese democratico, anche perché la maggioranza di loro ha votato per un presidente democratico. Tuttavia è indubitabile che gli Stati Uniti abbiano perso una parte non trascurabile del loro softpower, di quel potere “dolce” che ha così a lungo influito sulla vita del nostro pianeta. Per questo motivo penso che, se si vuole invertire il processo di arretramento della democrazia nel mondo, gli Stati Uniti e l’Europa debbano operare insieme in questa direzione.


Negli ultimi tempi, non è stata forse l’Europa il baluardo della democrazia? Solo noi siamo stati capaci di esportarla e senza nessun atto ostile, estendendola nei Paesi dell’ex Unione Sovietica dopo la caduta del muro di Berlino. Nonostante le nostre difficoltà e le diversità fra gli Stati dell’Unione, l’abbiamo poi conservata anche negli anni della crisi economica e stiamo perfino rafforzandola in questo terribile periodo di pandemia, durante il quale cominciano ad indebolirsi le tendenze autoritarie che tanto si erano espanse nel recente passato. 
Quanto è avvenuto in questi giorni dimostra quindi che solo uno stretto rapporto fra gli Stati Uniti e l’Europa è in grado di dare nuova vita alle democrazie del nostro pianeta. La storia personale di Joe Biden dimostra che questo è possibile.
 


Ultimo aggiornamento: Domenica 8 Novembre 2020, 00:07
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