Al via a Milwaukee/ Convention virtuale sfida dem a Trump ai tempi del Covid

Al via a Milwaukee Convention virtuale sfida dem a Trump ai tempi del Covid

di ​Maria Latella
«C’è gente che farebbe di tutto per andare al Superbowl o a un gala del Met. Io ho un debole per le conventions, sia dei repubblicani che dei democratici. Ma quest’anno saranno virtuali e allora mi considero dispensato». Dan Rather, 89 anni, per la prima volta non seguirà le conventions.

Rather, fino al 2005 conduttore di Cbs Evening news e per anni volto di 60 Minutes, annuncia così, su Facebook, la sua prima volta: non seguirà le convention dei due partiti, perché al tempo del Covid 19 saranno virtuali e dunque mancherà quel pathos, la tensione, le liti e le lacrime nel backstage, mentre sul palco i candidati sorridono e in platea i delegati ballano al ritmo delle band.

Come dar torto a Dan Rather? Una convention vista dal vivo è cento volte più emozionante di un gala al Metropolitan (sul Superbowl non mi esprimo perché non ho mai avuto l’occasione di andarci).

Dal 1988, duello tra il democratico Michael Dukakis e il repubblicano George Bush padre, fino alla convention di Denver, Colorado 2008 che consegnò la nomination a Barack Obama, ho seguito molte tappe delle elezioni americane. Ho visto i repubblicani ballare e brindare all’Hilton di Washington la notte in cui, novembre 1988, George Bush padre vinse le elezioni mettendo le basi per una dinastia alla Casa Bianca. Ho ascoltato un giovane e semisconosciuto senatore dell’Illinois, tale Barack Obama, pronunciare un appassionato discorso alla convention democratica di Boston, anno 2004, quando candidato presidente era John Kerry. Come sempre accade con gli oratori che non sono star, la platea di Boston seguiva il senatore Obama distrattamente, ma un delegato amico mi sussurrò di prestare attenzione: «Ascoltalo, tra quattro anni sarà il nostro candidato alla Casa Bianca». 
Ho visto la riservata Laura Bush, vestita di rosso e accolta come una rock star, incedere sul palco della convention repubblicana di New York, 2004, sulle note di Is’nt she lovely di Stevie Wonder mentre i suoceri Barbara e George innalzavano un cartello a forma di cuore “We love Laura”. E ti credo, si dice a Roma: in quel momento Laura era molto più popolare del marito George W.

Per citare ancora i ricordi di Dan Rather, si può coltivare qualche nostalgia per le convention di una volta «quando nelle stanze piene di fumo i maggiorenti dei partiti, quasi sempre uomini, puntavano chips sui candidati come fossero cavalli», tra drammi e a volte tumulti di piazza come accadde alla convention democratica del 1968 a Chicago, annus horribilis per il partito: ad aprile venne assassinato Martin Luther King, a giugno fece la stessa fine Robert Kennedy che si apprestava ad ottenere la nomination e quasi certamente a diventare presidente degli Ststi Uniti.

A proposito dei Kennedy. Quasi quarant’anni dopo, nel 2004, nella loro Boston, la royal family americana fu cerimoniera della convention democratica che sancì la nomination di John Kerry, un amico di famiglia. Fui invitata al ricevimento che la vedova di Robert Kennedy, Ethel, offrì al candidato nella sua casa di Hyannis Port. Cocktail in giardino e discorso in salotto, con Kerry, la figlia molto legata all’Italia, che introducendo la serata avverti che tutti gli interventi sarebbero stati brevi anche se «quando un Kennedy prende il microfono non puoi mai sapere quando te lo restituirà».

Le conventions sono (erano) fatte cosi: feroci duelli dietro le quinte ma anche feste, cene e mondanità. Soprattutto quando la nomination era già sicura come appunto accadeva a Boston in quel 2004: John Kerry sapeva di averla in tasca. Non andò cosi a Denver, Colorado, per la convention democratica nella quale, fino all’ultimo, Hillary Clinton aveva sperato di avere la meglio su Barack Obama. 

Anche allora il partito era più che diviso e già si parlava del rischio di una “brokered convention” quando alla fine i maggiorenti imposero la resa alla combattiva Clinton. Il 3 giugno Barack Obama fu dichiarato “presunto candidato” La lotta però non era ancora finita. A Denver Hillary Clinton arrivò formalmente ancora in lizza per la nomination e ricordo bene la sera in cui dovette accettare la sconfitta. Ricordo la lunga fila delle sue sostenitrici, delegate per lo più coetanee della Clinton, in coda per entrare nel Pepsi Cola center. Molte erano in lacrime perché il sogno di una donna alla Casa Bianca le aveva spinte fino in Colorado nonostante si sapesse già che alla fine avrebbe vinto Obama.

Tra tutte le convention che ho visto, quella di Denver fu la più spettacolare. Per il discorso di accettazione del primo futuro presidente afroamericano fu requisito uno stadio, l’Invesco Field, con scenografia hollywoodiana e un programma degno del più grande show.
Anche i democratici più in vista, da Bill Clinton ad Al Gore a Ted Kennedy in collegamento perché già malato, avevano discorsi non più lunghi di quindici minuti. Fu anche la convention di Michelle Obama, la sua commozione sincera conquistò da quel momento il cuore dell’America.

Niente di tutto questo succederà oggi quando si aprirà ufficialmente la ventesima convention del Partito Democratico. La prima virtuale e anche la prima che comincia in un Paese piegato dalla pandemia. È anche la prima volta in cui i grandi network televisivi subiranno la concorrenza diretta di tanti competitor, a cominciare dalle testate storiche. Il Washington Post di Jeff Bezos seguirà in diretta Instagram e Twitter la convention e avrà interventi live con tutti i protagonisti, dalla presidente (House speaker) Nancy Pelosi a Bernie Sanders. Ma non Alexandra Ocasio Ortez, che pure interverrà e alla convention avrà un suo spazio.
Al di là del tentativo di presentare la “nuova normalità” di un appuntamento che normale non sarà, la verità è che tutto, in questa fase storica, sembra eccezionale. E tanto più per gli Stati Uniti. Il decano del giornalismo americano, il testimone di tante convention, la vede cosi: «Siamo a testa bassa, colpiti da una pandemia mondiale mentre sono a rischio la nostra salute, quella del pianeta e della democrazia». Ma Dan Rather, a 89 anni, non molla. Non seguirà le convention 2020 ma «programmo di esserci nel 2024 - avverte confermando le sue simpatie e antipatie in politica - E credo che con me ci sarà un’America migliore, più sana e più giusta».
 
Ultimo aggiornamento: Lunedì 17 Agosto 2020, 12:37
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