Il piano Erasmus/ L’antico sogno di rendere più europei i nostri ragazzi


di Francesco Grillo

«Si è fatta l’Europa, ora bisogna fare gli europei». Può essere utile parafrasare uno dei “ricordi” che nel 1865 Massimo D’Azeglio dedica al sogno di un’Italia appena unita dall’impresa di Garibaldi per cogliere il senso della svolta di cui ha bisogno oggi un’altra grande integrazione. L’Unione Europea non sarà mai davvero irreversibile se non sostenuta da opinioni pubbliche che si confrontino senza dividersi per interessi nazionali.

E anche non sostenuta da un’identità continentale che va rafforzata con azioni specifiche.
Può essere questo uno degli obiettivi dell’Erasmus obbligatorio che Enrico Letta ha scelto come prima proposta da attuare come nuovo segretario del Partito Democratico. La pandemia ha, però, aggiunto all’urgenza di accompagnare l’Unione Europea nel salto evolutivo che la crisi impone, quella di rafforzare una società che si è scoperta fragile rispetto ad emergenze alle quali non era abituata. Il diritto-dovere di frequentare in maniera del tutto gratuita almeno un periodo di studio all’estero potrebbe, anzi, essere completato dall’ipotesi di un servizio civile obbligatorio che attrezzi tutti a rispondere alle crisi (come già avviene in Svizzera o in Israele). 

Essere europeisti significa partire oggi dalla consapevolezza che non c’è nessun’altra parte del mondo che si sta scoprendo tanto fragile quanto l’Unione Europea. Non c’è nessun’altra macro regione del mondo che conti tanti morti per Covid-19 quanto l’Europa e sarà proprio il nostro continente l’ultimo a riagganciare, con un anno di ritardo, i livelli di produzione precedenti alla crisi secondo le previsioni della stessa Commissione Europea. A poco sembra essere servito stavolta il più poderoso sistema di protezione sociale del mondo che, come Angela Merkel ripete con orgoglio, assorbe la metà di quello che si spende in assistenza a livello globale. 

L’intera società europea si trova, in effetti, a dover fare i conti con due vulnerabilità. C’è, innanzitutto, una diffusa debolezza che deve essere il prodotto paradossale di un eccesso di stabilità e di sicurezza: aver dato per scontati diritti che si conservano solo rinnovandoli ogni giorno, ci ha disabituato alle mobilitazioni collettive che richiedono certe crisi. In secondo luogo, la fragilità è istituzionale: in un contesto nel quale qualsiasi decisione necessita di serpentine estenuanti tra veti incrociati (dei Paesi), principi di precauzione (come nel caso dei vaccini) e prerogative individuali (ad esempio, quelli alla privacy), le risposte arriveranno sempre troppo tardi. 

Oggi le persone, soprattutto giovani, fanno parte dello stesso sistema informativo e, tuttavia, anche tra gli adolescenti, in media 9 dei 10 amici con i quali maggiormente si interagisce attraverso Instagram sono della propria nazionalità. Secondo l’Eurobarometro, la metà degli Europei (e due terzi degli italiani) non è in grado di tenere una conversazione in una lingua diversa da quella madre. Sono solo 5 su 705 gli europarlamentari che sono stati eletti in un Paese diverso da quello nel quale sono nati e risultano ancora esclusivamente nazionali i dibattiti sui problemi da risolvere, anche tra gli individui che vivono di globalizzazione.
Il bilancio della Commissione Europea per il periodo 2021 – 2027 ha, in effetti, quasi raddoppiato i fondi destinati ad Erasmus Plus (da 18 a 28 miliardi) e, tuttavia, ciò non appare sufficiente a cambiare marcia.

Il Think Tank Vision ha calcolato qualche mese fa il costo dell’operazione ed il risultato è sintetizzato nel grafico che accompagna l’articolo: per mobilitare tutti gli universitari europei, aumentare l’importo della borsa di studio che attualmente non copre interamente le spese e estendere la possibilità a tutti gli studenti delle scuole superiori (per i quali Vision non ipotizza un obbligo) sono necessari 18 miliardi all’anno.

Per coprire la spesa basterebbe riallocarvi un quarto delle risorse dedicate alle politiche agricole comuni. Oppure lanciare una campagna di finanziamento minuto (Crowd Funding) o attraverso strumenti di “finanza di impatto” (con sconto sul prezzo di emissione del debito europeo) che, sin dall’inizio, avrebbero dovuto accompagnare Next Generation EU (che, invece, poco si presta con il regolamento attuale a finanziare l’operazione).

Coerente con l’idea di un Erasmus davvero per tutti è, poi, quella di introdurre un servizio civile che offra a tutti periodicamente la possibilità di fornire solidarietà a chi è in condizione di disagio. Nella proposta presentata qualche mese fa durante un incontro con il Dipartimento della Protezione Civile e diversi soggetti del volontariato, si ipotizzano quindici settimane di formazione sul lavoro e praticantato da diluire, in maniera flessibile, tra i 16 e i 25 anni (e, dunque, senza interruzione del periodo di studio) e di altre dieci settimane di “richiamo” da svolgere negli anni successivi fino alla pensione. 

Nel progetto si dimostra che, pur considerando il costo organizzativo a carico dell’esercito e del servizio sanitario nazionale e pur assegnando un’indennità per i giorni di servizio effettuati (di entità simile a quella percepita in Svizzera), l’intera esperienza potrebbe determinare un beneficio per le finanze dello Stato (liberandolo dall’obbligo di presidiare con strutture fisse aree di bisogno che non riesce più a raggiungere). L’intero terzo settore che, nonostante tanta retorica, continua a svolgere funzioni marginali rispetto al proprio potenziale, potrebbe fare un salto di qualità straordinario. E se entrambe le ipotesi fossero perseguite a livello europeo, avremmo la possibilità di fare dell’Europa il progetto che passa attraverso la responsabilità di tutti.

In fondo, il sogno di D’Azeglio di completare il progetto unitario, fu spinto dall’estensione a tutto il territorio nazionale della scuola dell’obbligo e della leva introdotte in Piemonte da Casati e da La Marmora poco prima che l’unità fosse imposta ad un Paese diviso. Oggi siamo in un contesto che gli eroi del Rinascimento farebbero fatica a riconoscere. Eppure, dopo 170 anni, dobbiamo riconoscere che una comunità sopravvive se riesce a condividere doveri che danno sostanza a libertà e a diritti individuali che possono sgretolarsi per pigra assuefazione.
www.thinktank.vision


Ultimo aggiornamento: Giovedì 25 Marzo 2021, 01:49
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