Sanzioni, la "bomba" del gas che può colpire l'Europa

Il caso sanzioni/ La "bomba" del gas che può colpire l'Europa

di Francesco Grillo

In questa strana guerra che sembra fare da ponte tra due secoli, il gas è diventato l’equivalente economico della minaccia nucleare. La possibilità che l’Europa chiuda il rubinetto attraverso il quale arriva il gas russo o che, al contrario, decida di farlo il Cremlino, può portare – proprio come con l’atomica – ad una devastazione reciproca. I danni non sarebbero però equivalenti: permanenti e potenzialmente letali per il gruppo di potere che governa al Cremlino; temporanei ma gravi anche sul piano del consenso politico generale per i partner europei.

È un’arma che va maneggiata con cura, come ha ricordato saggiamente Janet Yellen, il segretario al Tesoro degli Stati Uniti che mercoledì ha avvertito dei rischi di un embargo improvviso: l’atomica del gas va usata con chirurgica precisione, nei tempi e nei modi.

Sono i numeri a dare un’idea dell’intensità dell’abbraccio che ci lega al nostro attuale nemico. Quel nemico che, in fondo, fino a pochi mesi fa, era uno dei nostri principali partner. L’industria manifatturiera europea – secondo i dati di Eurostat – assorbe un quarto dell’energia consumata in Europa (il resto viene assorbito da trasporti, negozi, uffici e case). Tuttavia, a differenza degli altri settori, le fabbriche usano molto più gas naturale (l’87% del proprio fabbisogno) per far girare i propri impianti: il problema è che per il 93% il gas è importato e per il 47% il fornitore è la Russia. Il rischio di un inasprimento dello scontro con i russi non è tanto che si spenga il condizionatore (come nella celebre battuta del premier Mario Draghi) ma che le fabbriche si fermino, proprio come è successo con il lockdown causato dal covid due anni fa. Ancora più devastanti sarebbero, però, le conseguenze della chiusura del rubinetto per i russi: le esportazioni di petrolio e gas all’Unione Europea valgono da sole circa il 10% del Pil della Russia. In breve, sia sanzionati che sanzionatori sprofonderebbero in una recessione grave e, tuttavia, le due crisi avrebbero natura assai diversa.

Più semplice è, in effetti, il calcolo dell’impatto di una chiusura dei gasdotti sulla Russia: il Pil di quel grande Paese vedrebbe volatilizzarsi il 10% del suo valore. Con due aggravanti (dal punto di vista di Putin). La prima è che la scomparsa delle entrate valutarie del gas colpirebbero gli oligarchi che sono stati il blocco di potere che ha governato la Russia: non è escluso che ciò crei una frattura all’interno di quel blocco. La seconda è che il tracollo sarebbe permanente: anche con una classe dirigente completamente nuova e più occidentale, un’Europa che riuscisse a fare a meno del gas russo, molto difficilmente tornerebbe ad importarne, perché – anche prima della guerra - l’Unione si era impegnata ad uscire progressivamente dall’economia fossile. Molto remota nel tempo è, del resto, la stessa opzione che i russi sostituiscano l’Europa con la Cina: il gas passa attraverso gasdotti la cui costruzione richiede anni persino ai velocissimi cinesi. 

Più difficile è, invece, prevedere gli effetti della chiusura del rubinetto sull’economia europea. Di sicuro, il “canale di impatto” non sarebbe solo quello dell’inflazione che sta già rallentando l’economia europea (mettendo a rischio l’intera operazione del Recovery Plan).

Il rischio è quello di chiusure che, in teoria, possono portare ad un dimezzamento della produzione industriale (che vale il 15% del Pil dell’Unione), configurando una disastrosa replica del lockdown che abbiamo vissuto solo due anni fa. Rispetto a tale scenario, la stessa previsione della Banca centrale tedesca che prevede una riduzione del 5% del Pil sottostima le conseguenze che rischiano di essere sul piano politico (come dimostrano il primo turno delle elezioni presidenziali francesi), ancor più che su quello economico. 

L’Europa ha però, rispetto alla Russia, più possibilità. La conseguenza della mancanza di gas può essere contenuta se il razionamento dell’energia è distribuito con intelligenza, in maniera da evitare che si concentri su quelle imprese che svolgono un ruolo particolarmente vitale nelle catene produttive (ad esempio, quelle che assicurano componenti vitali per tutte le altre); e se protegge – proprio come con il Next Generation Eu - i Paesi più fragili. In questo senso è l’Italia – con e più della Germania – ad essere particolarmente vulnerabile per aver trascurato nel tempo la necessità di assicurarsi una indipendenza energetica minima (il grafico che accompagna questo articolo dice che, a livello europeo, ci sono dietro di noi solo Paesi talmente piccoli da non riuscire ad avere alcuna generazione propria). 

L’Agenzia Internazionale per l’Energia ha da poco prodotto un documento che articola un piano in dieci mosse per dimezzare la dipendenza dell’Unione dal gas russo: rispetto a 155 miliardi di metri cubi di gas importato ogni anno dalla Russia, la diversificazione delle forniture può ridurre la dipendenza del 15%; l’aumento di produzione propria (dal nucleare francese alle rinnovabili) di un ulteriore 10%; mentre la riduzione di un solo grado del riscaldamento nei condomini può ridurre le importazioni di un ulteriore 7,5%. Un progetto ambizioso che la Commissione Europea rafforza con il piano RepowerEu. E che, però, ha il punto debole di prevedere un’efficienza decisionale che l’Unione Europea oggi non ha. Come sa bene Draghi, senza coordinamento i sacrifici rischiano di far saltare l’anello più debole e quindi l’intero piano.

Le sorti della guerra si giocano davvero più sul piano dell’economia che su quello militare (ancora più pericoloso). Si gioca a Bruxelles non meno che a Kiev. E più in Europa che non negli Stati Uniti. La Russia e, anzi, ad essere più precisi, la sua classe dirigente rischiano di esserne spazzati via dalla soluzione finale del gas. Tuttavia, le conseguenze possono essere insopportabili anche per l’Europa già debilitata dall’aver appena vissuto la più grave recessione della propria storia. Come succede da due anni a questa parte, di fronte alla necessità assoluta, l’Europa deve perciò trovare un modo nuovo di essere Unione. Quello che ci può far vincere una guerra e portarci in un secolo che è, in fondo, cominciato già da ventidue anni.
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Ultimo aggiornamento: Sabato 23 Aprile 2022, 00:18
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