Bojo, il declino e il sovranismo che non paga


di Paolo Balduzzi

Era il 24 luglio di tre anni fa quando Boris Johnson assunse, nel giro di due giorni, la guida del partito conservatore prima e dell’intero Regno Unito poi.

Mille giorni nei quali ha guidato il Paese fuori dall’Unione Europea, attraverso una pandemia e, più recentemente, anche attraverso una guerra ai confini del continente. Un’agenda certo non semplice per nessuno ma che, almeno parzialmente, è stata impostata dallo stesso Johnson e su cui, anzi, il primo ministro ormai uscente ha costruito gran parte del suo consenso politico ed elettorale.


Consenso che però, perlomeno all’interno del partito conservatore, si è ormai sbriciolato. Sarà solo la storia, negli anni a venire, a giudicare questi anni. Quello che si può onestamente fare, alla fine di un mandato e di un periodo controverso come quello che stiamo vivendo, è di tentare un bilancio del suo governo, concentrandoci in particolare sui temi economici e politici più rilevanti. Per quanto riguarda i primi, il pensiero va subito alla Brexit.

Boris Johnson ne è stato da sempre un sostenitore e nel 2016 è entrato proprio per questa ragione come ministro degli Esteri nel governo di Theresa May. Tuttavia, dopo soli due anni si è dimesso a causa dell’incapacità dell’allora primo ministro di trovare consenso a Westminster sull’uscita dall’Unione europea. Una volta a capo del governo, ha ottenuto elezioni anticipate, grazie alle quali ha potuto portare a termine il processo nel gennaio 2020, poche settimane prima che la pandemia divampasse in tutto il mondo.

L’impatto della Brexit sull’economia della Gran Bretagna non è stato (ovviamente, verrebbe da aggiungere) quello promesso dai suoi sostenitori. Il passo non è cambiato e l’indipendenza non ha reso la vita più facile ai britannici; anzi, per molti versi l’ha resa più difficile: scioperi, mancanza di rifornimenti durante la pandemia, posti di lavoro vacanti (e quindi economia rallentata) per difficoltà nelle immigrazioni. Durante la pandemia il Pil britannico è sceso più che nel resto d’Europa mentre la ripresa, almeno finora, è stata decisamente più timida. E sul futuro pesa di certo la mancanza di un piano massiccio di investimento come quelli del Recovery Plan. L’inflazione è elevata, come nel resto d’Europa: è ora al 9,1%, il massimo dal 1982; in Italia, giusto per un confronto, è all’8%, livello più elevato dal 1986. Non solo: il governatore della Banca d’Inghilterra, Andrew Bailey, prevede una stagflazione nei prossimi mesi, cioè il rallentamento dell’economia in presenza di inflazione, e addirittura una recessione, anticipata dal segno negativo già sperimentato nel primo trimestre dal reddito nazionale britannico.


A sei anni dal referendum e a due anni e mezzo dalla Brexit, il Regno unito è ancora alla ricerca di una collocazione nel mondo, auspicando una leadership non più sostenibile e scoprendosi ancora di fatto molto integrato nella tanto vituperata Europa.

Anche sul fronte politico le spine principali sono di fatto conseguenze della Brexit. Da un lato, non è stato ancora trovato un accordo alla necessità di regolare i flussi commerciali tra Irlanda e Irlanda del Nord. Una questione che rischia di riaprire vecchie ferite. Dall’altro lato, l’indipendenza scozzese.

Verrebbe da dire che chi di secessione ferisce, di secessione perisce. Nonostante il fallimento del primo tentativo (2014), è già dal 2016, cioè proprio dal referendum sulla Brexit, che il governo scozzese rivendica la volontà di restare nell’Unione europea e, quindi, fuori dalla Gran Bretagna. Il governo di Edimburgo spera che il prossimo referendum, convocato per l’autunno 2023, sarà un successo. Proprio Boris Johnson si è sempre detto contrario a un secondo referendum «durante questa generazione», per citare le sue esatte parole. E se la posizione del primo ministro può dirsi per certi aspetti ragionevole, non si può ignorare che il risultato del referendum sulla Brexit e la sua successiva implementazione abbiano sconvolto le carte in tavola per un territorio, quello scozzese, da sempre avverso all’uscita dall’Unione europea. A quanto sembra, non sarà quindi più Johnson a gestire l’(eventuale) indipendenza scozzese. E, in fin dei conti, forse per lui è davvero meglio così: aver cavalcato la grandezza britannica potrebbe portare alla disgregazione del Regno (non più) unito.


Strano a dirsi, soprattutto per noi italiani, il consenso del primo ministro non è crollato per nessuno di questi motivi. Sono stati alcuni comportamenti, non necessariamente sempre illeciti ma decisamente inopportuni, a portare alle dimissioni di oltre 40 membri del governo: da ultime, quelle presentate ieri pomeriggio proprio dallo stesso Johnson. Feste durante il lockdown, qualche brindisi di troppo, scandali sessuali, nonché qualche dichiarazione di cattivo gusto: è evidente che l’opinione pubblica nostrana e d’Oltremanica abbiano standard alquanto diversi. Tuttavia, per quanto riguarda alcune dinamiche politiche, ci sono anche molte similitudini. I leader politici farebbero meglio a guardarsi più dai nemici interni che da quelli esterni. È successo a Johnson, May e Brown in Gran Bretagna; ma anche a Prodi, Berlusconi e Renzi nel nostro paese. 


E forse l’esperienza di Johnson porta con sé anche un altro insegnamento comune, questa volta a tutti i paesi europei: piaccia oppure no, il destino di tutti i popoli del continente è indissolubilmente legato. I movimenti populisti e antieuropei potranno sempre contare su uno zoccolo duro di consenso elettorale ma, alla prova dei fatti, il sovranismo non paga. A volte, per vedere il re nudo non serve nemmeno un brindisi di troppo.


Ultimo aggiornamento: Sabato 9 Luglio 2022, 00:44
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