Il nuovo premier/L’occasione per i partiti: rivitalizzare la politica

Il nuovo premier/L’occasione per i partiti: rivitalizzare la politica

di Alessandro Campi

L’esecutivo deve ancora ottenere la fiducia delle Camere e già si parla delle fibrillazioni e dei contrasti che lo attraversano e che rischiano di minarne l’attività se non la stessa durata. Gli occhi degli osservatori sono puntati soprattutto sulla delegazione della Lega, al cui leader Salvini si imputa una strategia (anche comunicativa) finalizzata a condizionare (e forse anche logorare) Draghi in ogni sua scelta.


Il problema sembrerebbe quello di un partito strutturalmente votato alla protesta e che ora, dopo la subitanea conversione all’europeismo che gli eventi hanno imposto anche a chi si dichiarava sino al giorno prima avversario dell’euro e dei tecnocrati di Bruxelles, fatica a vestire i panni che si addicono ad una responsabile forza di governo. La Lega – prevedono in molti – sarà la spina nel fianco di Draghi: un pezzo della maggioranza che, per attitudine e convenienza, continuerà a comportarsi come se fosse all’opposizione. 


In realtà, il problema è più vasto, tocca anche le altre formazioni politiche e riguarda le ragioni che hanno portato all’incarico di Draghi, il modo con cui quest’ultimo si è rapportato con i partiti che lo sostengono e la natura stessa dell’esecutivo. Che non è un classico governo di coalizione, tanto meno una “grossa coalizione” sul modello germanico.

E nemmeno qualcosa di simile alla “unità nazionale” sperimentata in Italia nell’immediato dopoguerra e negli anni del terrorismo, come talvolta si è detto. I partiti, grandi e piccoli, non si sono messi volontariamente d’accordo tra loro, sono stati costretti ad accordarsi dal pressing del Quirinale e hanno dovuto trattare singolarmente con il nuovo presidente del Consiglio. E nemmeno c’è stato l’incontro tra due grandi forze popolari, ben radicate nella società e largamente maggioritarie in Parlamento, che hanno scelto di unire le forze e di condividere un programma (magari per superare uno stallo elettorale), come talvolta avviene in democrazie come quella tedesca o austriaca. 
Stiamo parlando, nel caso di Draghi, di un esecutivo d’emergenza nato per gestire quest’ultima nelle sue diverse (e per molti versi drammatiche) manifestazioni. E’ in questo senso che esso non risponde, come peraltro indicato dal Capo dello Stato, ad alcuna “formula politica” sinora conosciuta. Ai partiti – a tutti i partiti presenti in Parlamento – è stato eccezionalmente richiesto, per ragioni d’interesse nazionale e in deroga all’ordinaria competizione democratica, di accettare una sorta di coabitazione coatta. Di mettere dunque momentaneamente da parte divisioni ideologiche e differenze programmatiche (comprese le asperità caratteriali tra leader) per concentrarsi tutti insieme su alcuni temi strategici e impellenti, a partire dalla lotta alla pandemia.
Con l’eccezione di Fratelli d’Italia, tutti i partiti hanno positivamente risposto all’appello del Colle, ma con tensioni interne inevitabili, comprensibili e destinate a durare. Pur nel rispetto scrupoloso del dettato costituzionale (mai seguito alla lettera come in questo caso: dall’incarico a Draghi dopo il fallimento del mandato esplorativo del presidente della Camera alla scelta in autonomia che lo stesso Draghi ha fatto dei suoi ministri), questo governo rappresenta infatti una forzatura oggettiva rispetto alla normale dialettica politica. 
L’esito del blocco tra partiti che s’era creato dopo le dimissioni di Conte, falliti nel giro di tre anni i due governi di diverso colore politico guidati da quest’ultimo, normalmente sarebbero state le elezioni. La grave contingenza sanitaria ed economica imposta dalla pandemia, nonché alcune inderogabili scadenze internazionali, hanno imposto una soluzione diversa. Necessaria dal punto di vista istituzionale, sperabilmente utile per la nostra vita collettiva, ma pur sempre politicamente eccezionale. 


Questo spiega anche la particolare composizione del governo, che al suo interno sembra contenerne tre: quello di Draghi (che ha tenuto per sé e i suoi ministri più fidati le competenze in materia economica e il grosso della gestione dei fondi europei in arrivo), quello del Presidente Mattarella (che per lenire il trauma ha chiesto continuità con il precedente esecutivo in dicasteri delicati quali interni, esteri, sanità e difesa) e quello dei partiti (che hanno giustamente ottenuto un riconoscimento politico a misura del loro peso in Parlamento e nel Paese).
Ciò significa che le fibrillazioni di queste ore, imputabili in apparenza all’irresponsabilità della Lega, saranno in realtà una costante nella vita del governo Draghi e verranno, a corrente alternata, da tutte le forze che hanno scelto di sostenerlo.

Al momento esse possono considerarsi poco più che scosse d’assestamento, il modo attraverso il quale i partiti provano a riprendersi dallo shock subito (siamo peraltro nella fase delicata in cui si stanno scegliendo i sottosegretari e ognuno cerca dunque di piazzare al meglio le sue pedine).

Tutti, entrando in questo a dir poco inedito governo, hanno dovuto cedere pezzi di sovranità politica e qualcosa della loro stessa identità. Magari lo hanno fatto, cinicamente, per non restare fuori dalla discussione su come andranno utilizzate le ingenti risorse finanziarie provenienti dall’Europa. Ma pur illudendoci, per un momento, che lo abbiano fatto per senso di responsabilità nei confronti dell’Italia e degli italiani, resta che l’appoggio ad una personalità come Draghi non è stata una decisione facile per nessun partito, ognuno dei quali rischia di pagare un prezzo per questa scelta.


I contrasti che certamente si manifesteranno periodicamente di qui in avanti saranno dunque un po’ un gioco inevitabile delle parti (sui quali la stampa inevitabilmente si getterà a pesce per enfatizzarli), un po’ una valvola di sfogo necessaria. Ogni partito deve pur sempre parlare al proprio elettorato e cercare di distinguersi, specie da quelli più lontani da sé per ispirazione ideale e cultura politica. In una situazione eccezionale come quella che ha portato alla nascita del governo Draghi, dai partiti e dai loro esponenti si può pretendere sobrietà nella comunicazione, lealtà agli impegni pubblicamente (e liberamente) assunti e pragmatismo nelle scelte operative che dovranno essere fatte, ma non si può chiedere loro né l’unanimismo acritico né l’annullamento di tutte le differenze né il silenzio. 


L’importante è ovviamente capire sino a che punto ci si potrà spingere nel dissenso e nella critica, sino a che punto cioè si potrà fare opposizione stando in maggioranza senza sabotare l’azione del governo o mandare tutto all’aria, vanificando così gli obiettivi di rinascita che sono stati accettati e sottoscritti. 
Ma ancora più importante è capire che se l’arrivo (a suo modo provvidenziale) di Draghi è stato causato dal fallimento della politica incarnata dai partiti, esso non può tuttavia essere considerato come la conferma che la prima è inutile e che i secondi meritano di scomparire.


L’eccezione di Draghi capo di un governo d’emergenza, oltre che ad affrontare e risolvere i problemi più urgenti degli italiani e a realizzare alcune fondamentali riforme, dovrà infatti servire ai partiti per rigenerarsi nell’organizzazione nei programmi e nella cultura politica, alla democrazia italiana per ritrovare la sua fisiologica conflittualità e all’intero sistema politico-istituzionale per riprendere la sua funzionalità. Altrimenti anche quest’ennesima supplenza politica, l’ultima accettabile, l’ultima possibile vista la personalità per molti versi unica di Draghi, finirà per rivelarsi inutile e dannosa.


Ultimo aggiornamento: Giovedì 18 Febbraio 2021, 00:38
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