La sanità calabrese e la battaglia persa del generale a riposo


di Francesco Grillo

La persona sbagliata al posto sbagliato, nel momento peggiore. Verrebbe da usare anche un po’ di “pietas” nel commentare la fragorosa fine della carriera di un generale dei carabinieri che, da pensionato, si è ritrovato a fare il Commissario del sistema sanitario più disastrato d’Italia. Proprio mentre l’intero Paese sta per essere travolto dalla seconda grande ondata di uno tsunami sanitario e la Regione Calabria è senza neppure il debole scudo politico di una presidente appena scomparsa tragicamente. Se ne è andato via senza opporre resistenza il Commissario Cotticelli, e, tuttavia, il suo imbarazzo di fronte alle telecamere impietose propone in maniera tragica una questione molto più importante: in che maniera deve uno Stato – in un contesto democratico ed europeo - intervenire rispetto a crisi locali che possono sprecare risorse pubbliche assai scarse e mettere a repentaglio i diritti minimi dei cittadini? È ancora valido il sistema del commissariamento – nato nel ventennio fascista – per reagire a inadempimenti gravi da parte di enti locali? Non c’è, invece, un modo per regolare in maniera più flessibile ed efficiente la distribuzione dei poteri tra centro e periferia in maniera da prevenire i disastri che l’epidemia sta solo accelerando? 

La vicenda kafkiana di Catanzaro è la rappresentazione tragica di un errore che ricorre, spesso, in molte nomine pubbliche: l’illusione in Calabria è, infatti, stata quella che possa bastare un solo uomo (più la sua sub-commissaria) per far ripartire una macchina che – già prima dell’epidemia – stentava a garantire i livelli essenziali di assistenza (Lea), nonostante le voragini aperte nei bilanci delle aziende sanitarie. 

La Regione, insieme al Molise (l’altra Regione commissariata), è riuscita, infatti, a produrre negli ultimi due anni quasi un quarto dei 2,2 miliardi di disavanzo dell’intero Sistema Sanitario Nazionale, pur ospitando meno del 4% della popolazione italiana. Ancora più sconcertante è l’evidenza certificata dai numeri della Ragioneria Generale che dice che le sanità della Regione Calabria e Molise abbiano registrato perdite più elevate nell’ultimo anno (2019) che in quello (2011) successivo alla nomina del primo Commissario. Sembra, insomma, che persino la decapitazione dei vertici dei sistemi sanitari malati non riesca a scalfire le inefficienze; che dieci anni siano trascorsi invano; e che, infine, il fallimento fosse già chiaro prima ancora che il Covid-19 lo rendesse evidente celebrandolo in televisione nella trasmissione condotta da Massimo Giletti (laddove, parte del problema è che, ormai, il luogo di certe decisioni politiche sembra essersi stabilmente spostato nei talk show).
Tre sono i motivi per i quali il commissariamento, spesso, fallisce e tre i problemi grossi che un commissario deve affrontare in una regione come la Calabria (in “piano di rientro” sono stati, però, anche il Piemonte e il Lazio fino a qualche mese fa), in molti Enti pubblici o Comuni sciolti (secondo il ministero degli Interni ne sono stati sciolti 2.159 dal 2006 e la regione che ne conta di più è la Campania seguita dalla Lombardia). 

In primo luogo, bisogna sgonfiare le spese senza compromettere i servizi minimi essenziali: mantenere (o incrementare) la qualità dei servizi, riducendone i costi è una sfida manageriale e, sempre di più, di innovazione tecnologica.

In secondo luogo, le amministrazioni pubbliche inadempienti pongono l’ulteriore problema di dover raggiungere livelli di efficienza assai superiori senza poter ricorrere ai licenziamenti che il capo di un’azienda farebbe scattare immediatamente: il compito di un “commissario” non può che essere anche quello di formare e rimotivare persone (peraltro, non giovani). Infine, esiste, spesso, una incapacità – dolosa o colposa, specifica o sistematica – di reclutare dipendenti e di realizzare appalti in maniera regolare: è errato, tuttavia, pensare che questo sia il problema principale o esclusivo di un commissariamento (solo 153 dei 2159 Comuni sciolti negli ultimi dieci anni lo furono per infiltrazioni mafiose), anche se in un Paese che ha un perverso attaccamento alle storie di mafia (da Suburra fino a Gomorra) sembra che ci voglia sempre un Di Pietro per salvare la Patria.

Il problema che il caso della Calabria (ma anche quello del Molise) rende urgente è che non si può più pensare di risolvere problemi appiccicandovi una figurina. Magari quella di un rassicurante uomo delle istituzioni dal quale non si può pretendere di svuotare il mare con un cucchiaino. 

Se vogliamo essere seri dobbiamo, dunque, pensare a meccanismi che consentano di identificare la malattia della insufficiente capacità istituzionale, molto prima per evitare metastasi: basta leggere un bilancio, spesso, per rendersene conto. La sua natura va più esattamente circoscritta e, in questo senso, lo Stato dovrebbe poter anche commissariare la singola Azienda sanitaria prima che il contagio si estenda. E, infine, chi cura deve poter avere il bisturi e la forza per operare. 

Occorre – in attesa di una revisione che porti il Titolo quinto della Costituzione nel ventunesimo secolo – una ristrutturazione dell’istituto stesso del commissariamento: la squadra che interviene deve dedicarcisi a tempo pieno e deve essere di elevata qualità (ed in questo senso non è necessariamente vero che la ristrutturazione di un ospedale non possa avvalersi dell’esperienza di un manager che proviene da un altro settore). E, soprattutto, la sua conferma, il suo compenso deve essere rigidamente parametrato a indicatori predefiniti. Non meno indispensabile è, però, intervenire su sistemi informativi che – ciò anche prima di imbarcarsi in difficili revisioni costituzionali – devono essere urgentemente resi indipendenti da possibili manipolazioni e capaci di rendere ad un’unica centrale nazionale dati omogenei: ciò renderebbe affidabile la rilevazione dei Lea e i ventuno indicatori che usiamo per colorare le Regioni e differenziare le politiche di restrizione.

In fondo, la vicenda del generale in pensione finito in una trappola che si è teso da solo, è lo specchio di un Paese che rifiuta di essere normale. Che rifiuta di capire quanto per ricostruirsi sulle rovine che lascerà l’ultima crisi è fondamentale lavorare sui risultati. Senza più perdere tempo ad aspettare angeli vendicatori e ad invocare onestà nelle chat di gruppo e nei talk show che accompagnano dolcemente un popolo in un declino che può diventare un tracollo. 
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Ultimo aggiornamento: Martedì 10 Novembre 2020, 00:10
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