Draghi, la potenza di un’analisi che la politica voleva ignorare

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di Mario Ajello

Il linguaggio della concretezza e dell’autorevolezza la politica se lo era dimenticato da tempo. Ora irrompe di colpo in Parlamento con il discorso di Draghi. E il metodo del neo-premier - quadro della situazione, obiettivi strategici, conclusioni e insomma: adesso vi dico che cosa intendo fare prendere o lasciare - ha un effetto straniante per i presenti nel Palazzo ma risulta in sintonia con quanto i cittadini si aspettano dalla classe dirigente. 

Vogliono competenza, verità e coraggio nelle scelte, anche quelle impopolari come la chiusura citata da Draghi di comparti produttivi che non producono più e pesano sulle spalle della collettività. E questo approccio anti-ideologico che disarma la sterile competizione tra partiti ha percorso il filo delle parole secche e ossute che ha pronunciato ieri il premier prima di ottenere la fiducia. 

Ecco, è svanito come d’incanto - ma poi la prova dei fatti dovrà dirci se questa non è solo un’illusione - il politichese che ha tanto contribuito a creare il baratro tra il cosiddetto Paese reale e il cosiddetto Paese legale. Dai vaccini al Recovery Fund, ossia alla ripresa e alla rinascita nazionale, le priorità dell’Italia da rifare come dopo la seconda guerra mondiale sono state scalettate quasi scientificamente: un contenuto ad ogni riga del discorso. E guai a dire che Draghi è in questa sua anti-retorica il perfetto prototipo del non italiano, perché è vero il contrario: l’Italia è stata fatta e fatta crescere, nelle sue stagioni migliori, esattamente sulla base del pragmatismo delle cose e della visione asciutta della storia. 

Non a caso il capo del governo ha citato Cavour, uomo di azione, proteso verso mete ambiziose ma allo stesso tempo realizzabili. Di questo l’Italia oggi ha bisogno e questa è la ricetta Draghi, esposta davanti a un uditorio nei casi migliori disabituato e in quelli peggiori totalmente ignaro rispetto a un modo di fare politica non «farisaico» (tanto per usare l’aggettivo cui è ricorso ieri il premier a proposito delle quote rosa e che è risultato quello più cliccato sul web per capire di che cosa si tratta) e che adotta come unica discriminante non quella tra destra e sinistra ma un’altra: portare risultati oppure no. 

Naturalmente si spera che il governo li porti e comunque è ben augurante agli occhi dei cittadini (Draghi non usa il termine gente o popolo ma «cittadinanza») questa nuova pedagogia istituzionale in cui il principio di autorità si fonda sulla dimostrazione di saper essere all’altezza delle emergenze sanitarie ed economiche in corso, scegliendo e non mediando.

Conoscere e deliberare dopo aver ascoltato tutti (occhio al passaggio sulla centralità del Parlamento) ma senza farsi irretire da nessuno: questo il metodo proposto. E dopo averlo illustrato, il premier ha guardato più volte da sinistra a destra e da destra a sinistra l’intero emiciclo, con discrezione e senza voler fare teatro, come a dire: mi avete capito bene?

Smontando i pilastri del sovranismo, con Giorgetti seduto al suo fianco che annuiva, il capo del governo ha pure tracciato un’idea di patriottismo o di nazione (preferisce questo secondo vocabolo) come sforzo unitario per un obiettivo comune, ossia il futuro delle giovani generazioni, e il messaggio è chiaramente rivolto anche alla Meloni che questo tipo di discorsi li conosce bene e li sente fortemente. Ha dato la sensazione Draghi di sapere che su certe misure potrà contare sull’opposizione «patriottica» di Fratelli d’Italia e di rendersi conto che il suo è un governo omnibus con un’opposizione incorporata (una volta sarà la Lega, un’altra M5S e il Pd tramortito dovrà battere qualche colpo anche sguaiato per mostrare di esistere) e ciò non aiuterà la navigazione. 

Draghi appare consapevole che il suo approccio concretista vale come uno choc per i partiti abituati per lo più a piantare bandierine propagandistiche. Sa bene che stare in una maggioranza assai variegata non è la stessa cosa dell’identificarsi totalmente con il governo, e tuttavia sta prospettando ai partiti una possibile rigenerazione: badare al primato dell’interesse generale che allo stato in cui ci troviamo non ammette più conservatorismi e corporativismi di partito o di categoria. 

I dipendenti pubblici devono formarsi di più e meglio, crescere professionalmente, innovarsi e dalla scuola alla burocrazia elevare se stessi per alzare il livello del servizio ai cittadini e in prospettiva aiutare la crescita del Pil, della vivibilità e della competitività dell’intero Paese: ecco una delle vie della rinascita che passa da un costante, irreprimibile, pensiero del futuro. La sfida è lanciata: la forza di lasciarla cadere i partiti non ce l’hanno ma l’arma dell’unanimismo come consenso formale e freno fattuale rientra in certa tradizione italiana di cui non andare fieri. La società italiana, almeno quella delineata da Draghi, sembra per fortuna e per effetto di questa crisi epocale più avanti rispetto a certe incrostazioni politiche. E questo induce ad avere fiducia.


Ultimo aggiornamento: Giovedì 18 Febbraio 2021, 20:15
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