Lo Statuto ha 50 anni/Ripensare il lavoro e cambiare i sindacati


di Francesco Grillo
«Era la prima volta che i giuristi non si limitavano a svolgere il loro ufficio di segretari del Principe ma riuscivano ad operare come autentici specialisti della razionalizzazione sociale». Furono queste le parole che Gino Giugni – il padre, con Giacomo Brodolini, dello Statuto dei lavoratori – dedicò alla nascita di quello Statuto di cui ricorrono mercoledì i cinquant’anni. 

E, tuttavia, sarebbero quegli stessi uomini, oggi, a riconoscere che è arrivato il momento di tornare a quel sistema di regole per riscriverlo radicalmente. 
Per due ragioni. La prima che è necessario adeguarlo ad una mutazione tecnologica che mette in discussione il concetto di lavoro. La seconda è che, come sappiamo bene in Italia, la “strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni” e i valori che lo Statuto esprimeva sono rimasti incompiuti.

Anzi sono stati, spesso, strumentalizzati per creare e difendere posizioni di potere che – in un Paese che ha accumulato ritardi per vent’anni e sta sprofondando in una depressione pericolosa – non sono più da tempo sostenibili.
Innanzitutto, dunque, c’è la pressione che le tecnologie ci stanno portando. In un mondo inondato dall’informazione non sta diminuendo il lavoro, ma se ne riduce, certamente, la domanda e, dunque, il prezzo che le imprese sono disposte a pagare per comprarlo. Negli ultimi trent’anni si è ridotta costantemente e in tutto il mondo, la quota di ricchezza nazionale assorbita dal lavoro e aumenta quella destinata a remunerare il capitale. Al netto della crisi scaturita dal Coronavirus, non diminuisce tanto il numero di occupati, ma aumenta il numero di quelli (come i riders che, in queste settimane, hanno raddoppiato i turni per portarci pizze a domicilio) che con il proprio stipendio fanno fatica ad arrivare alla fine del mese.

Sono, poi, le stesse tecnologie a rendere progressivamente obsolete le organizzazioni di rappresentanza immaginata dai padri dello Statuto, inducendo una diminuzione progressiva della convenienza da parte dei lavoratori ad aggregarsi attorno ad un’impresa. Le imprese, in fondo, esistono per ridurre il problema (gli economisti classici lo chiamano “costo di transazione”) di cercarsi periodicamente una squadra la quale produrre un certo bene o servizio. Strumenti come Linkedin rendono, in teoria, molto meno costoso cambiare periodicamente datore di lavoro, lavorare per conto proprio o per organizzazioni diverse. Negli ultimi vent’anni in Italia è raddoppiato sia il numero di occupati part–time, che dei titolari di contratto a tempo determinato che il sindacato fa fatica ad intercettare.

Stanno, infine, saltando i confini tra i settori produttivi e, come la pandemia rende improvvisamente evidente, ai lavoratori di società che devono ridurre la propria vulnerabilità, verrà richiesto di apprendere più mestieri e ciò renderà molto più difficile (aldilà dei problemi italiani legati alla difficoltà di contare gli associati a ciascun sindacato per ciascun comparto) immaginare contratti validi per un’intera categoria.
Sono queste le correnti storiche di lungo periodo che erodono il peso negoziale dei sindacati e pretendono un nuovo sforzo riformista che parta da una teoria di ciò che sta succedendo. 

E, tuttavia, alla sfida di un futuro che ci sta piombando addosso, si aggiunge il problema – non più piccolo – di un passato recente che ha, in effetti, tradito quelle che erano le intenzioni dello Statuto. Dalle contestazioni prima studentesche e poi operaie, i governi del centro sinistra riuscirono nello stesso anno (1970) a concepire due riforme – quella che introdusse lo Statuto e l’altra che varò le Regioni a statuto ordinario – pensate per rendere irreversibili certe libertà fragili. A cinquant’anni da quelle riforme ambiziose, entrambe sembrano essersi trasformate nel proprio contrario. 

Chiunque provi, infatti, a confrontare ciò che i Sindacati sono oggi, con quello che avrebbero dovuto essere per uomini come Giuseppe De Vittorio (che fu il primo a chiedere una legge che garantisse ai lavoratori la libertà di associazione), non può non notare una serie di paradossi: come mai i Sindacati non si sono mai dati una personalità giuridica, anche se è questa la primissima previsione che fa la Costituzione che li introduce all’articolo 39?

Se l’ossessione di Giugni era quella di garantire la libertà dei lavoratori non solo nei confronti dei datori di lavoro, ma anche dello Stato (per cancellare il modello corporativo che definì il fascismo), come mai si è accettato, negli anni successivi, che lo Stato finanziasse i sindacati per l’erogazione di servizi pubblici (quelli dei patronati) senza passare per una gara? E, infine, il fatto che un terzo degli iscritti ai sindacati siano pensionati non comporta forse una modifica della natura del sindacato stesso considerando che è lo Statuto del 1970 a prevedere che quello “di costituire sindacati” sia un diritto da garantire “ai lavoratori all’interno dei luoghi di lavoro”? 

In pratica, l’intero mercato del lavoro italiano vive da anni in quell’incertezza legislativa che, regolarmente, crea abusi, allontana i sindacalisti dalla propria missione e toglie prospettiva a chi – lavoratore o impresa – vuole vivere delle proprie competenze e non, costantemente, attaccato al proprio consulente del lavoro. Periodicamente, il legislatore e la giurisprudenza cercano di trovare soluzioni (come quella da far certificare dall’Inps il peso dei diversi sindacati che è condizione indispensabile per arrivare a contratti validi per interi settori produttivi) e, tuttavia, basterebbe accettare di essere normali per avere, almeno, bilanci certificati. 

Particolarmente laceranti, infine, sono i conflitti sui quali i sindacati più grandi sono seduti: da che parte sta un sindacato come la Cisl se gli insegnanti chiedono di stare a casa e molti più lavoratori (soprattutto mamme) pretendono la riapertura delle scuole per i propri figli? Chi difendono quando si scoprisse che i dirigenti di un’agenzia pubblica stanno sprecando risorse destinate alla formazione professionale? 

Il sindacato del futuro e un nuovo statuto nascerà, innanzitutto, da una scelta di campo: molto diverso sarà il ruolo e, persino, la forma di un’organizzazione che voglia rappresentare tutti i lavoratori da quella che invece si costruirà legittimità difendendo una specifica categoria rispettando la legge. Chi vorrà perseguire interessi generali si troverà a dover fare i conti con una sfida più politica e difficile: ritornare ad essere “corpo intermedio” capace di riannodare i fili di una società spezzata in due tra classi dirigenti in crisi di idee ed una sconfinata classe media che – proprio sul lavoro - ha perso coscienza di sé stessa.
Ultimo aggiornamento: Lunedì 18 Maggio 2020, 14:40
© RIPRODUZIONE RISERVATA