Il nodo Conte-Letta/ La scomoda ascesa del nuovo capo M5S

Conquistato il M5S nel modo che sappiamo – l’hanno votato, senza avere rivali e contendenti, un iscritto al movimento su due, per un totale di circa 60.000 militanti alla tastiera – per Giuseppe Conte inizia ora la parte difficile del suo nuovo lavoro, dopo che da statista e uomo delle istituzioni super partes s’è visto suo malgrado costretto a indossare i panni, certamente meno gratificanti e meno sicuri, del politico partigiano. 
Da capo del governo che s’atteggiava a decisionista e a padre premuroso degli italiani nell’ora più buia, il gradimento popolare volava. Da capo fazione, se ne accorgerà quanto è dura piacere al prossimo!

Che ne sarà dunque del M5S sotto la sua guida? Il primo problema, organizzativo e, diciamo così, gestionale, è stato risolto solo in parte con il varo del nuovo statuto d’impianto verticistico: scritte le regole, ora bisognerà scegliere gli uomini (ovviamente quelli più fedeli e leali) e varare i nuovi organigrammi. 
Sarà il lavoro certosino delle prossime settimane, considerate le molte anime e sensibilità (e le molte ambizioni personali) da soddisfare e tenere in equilibrio. Ma il passo fondamentale è stato fatto: prima c’era un clima assembleare che favoriva le lotte tra fazioni interne e il ricorso alla parola di Grillo come suprema istanza e massima autorità morale.


Ora c’è un capo politico legittimato al quale nemmeno Grillo, d’ora in avanti, potrà più dare ordini.
Poi ci sono le questioni d’ordine politico, quelle ancora più serie e dirimenti: a quale linea attenersi, quali battaglie condurre, quale profilo progettuale darsi, cosa mantenere del vecchio e cosa inventarsi di nuovo, avendo solennemente fissato il 2050 come data-simbolo di una rivoluzione nel costume e nei comportamenti collettivi che appare davvero troppo lontana e fumosa, oltre che poco coerente con l’abito mentale e il modo di fare tipici di Conte: un pragmatico incline alla mediazione, all’insegna del buon senso e d’un certo cinismo avvocatesco, tutt’altro dunque che un sognatore visionario, sperimentatore di mondi possibili, come era Gianroberto Casaleggio. 
Il realismo delle cose e della storia è lo scoglio contro cui vanno sempre a sbattere i romantici e i rivoluzionari d’ogni colore: alcuni affondano miseramente, altri vi si aggrappano e, appresa la dura lezione dell’esperienza, cominciano una nuova vita.


Sul “che fare?” contiano dei prossimi dodici mesi, non per i prossimi ventinove anni, al momento sono arrivati segnali contraddittori. Da un lato ha ammiccato a più riprese all’ala radicale e contestatrice del “non-più-movimento”, giocando a fare anch’egli il populista duro e puro, ma senza apparire molto credibile. Da qui la proposta di candidatura romana al pasdaran Alessandro Di Battista, la promessa di abolire la riforma Cartabia un minuto dopo averla votata, i malumori espliciti verso il governo Draghi, l’arroccamento a difesa del Reddito di cittadinanza ecc.
Questo lisciare il pelo al grillismo intransigente sembra obbedire ad almeno due ragioni. Una contingente: non lasciare troppo spazio all’ala governista capeggiata da Luigi Di Maio, quella che vuole portare Draghi alla scadenza naturale della legislatura (mentre Conte non vede l’ora di andare a votare). Una strategica: impedire scissioni e fughe verso sinistra che come regista e ispiratore esterno potrebbero avere Casaleggio jr, il cui silenzio dopo la fine della piattaforma Rousseau è la migliore prova che sta tramando qualcosa nel nome della purezza perduta e del sogno paterno infranto. 


Dall’altro lato appare anche chiaro che per Conte, finita l’età del ribellismo anarcoide, delle aggressioni verbali spacciate per schiettezza popolare e del dilettantismo elevato a virtù civica, l’unica possibilità di salvezza per il grillismo – vista l’emorragia di consensi che dura da almeno tre anni – consiste nel posizionarsi sul terreno del riformismo progressista: ecologismo pragmatico, senza cioè catastrofismi cosmici; diritti civili secondo lo spirito del tempi; assistenzialismo da vecchio Stato del benessere; un multilateralismo retorico e un vago occidentalismo per far dimenticare le sbandate filo-cinesi del passato; istanze partecipative e cittadinanza attiva ma nel contesto di una democrazia che rimane rappresentativa e parlamentare; un europeismo che dopo la pandemia è divenuto obbligatorio per tutte le forze politiche.
Potrebbero stridere con questa virata moderata, pragmatica e centrista l’enfasi giustizialista e il sogno di una repubblica degli onesti, che essendo in realtà l’ideologia costitutiva della Seconda Repubblica italiana nemmeno può essere considerata un’esclusiva grillina, bensì una forma mentis trasversale che essi hanno avuto solo il merito di cavalcare con più veemenza degli altri.
Di sicuro sentiremo parlare sempre meno di battaglie contro le élite e di poteri forti da mandare a casa.

Più che contestare il potere come intrinsecamente corrotto e oligarchico, Conte è uno che il potere punta a riprenderselo, sapendo come funziona effettivamente (è roba di pochi anche quando si fa credere che sia roba di tutti). 


Al tempo stesso, è difficile prendersela con la casta e i professionisti del Palazzo per uno che, come Conte, per chi conosca il suo percorso professionale e la sua rete di relazioni, di quel mondo è un’espressione sebbene rimasta a lungo poco nota all’opinione pubblica.
Restano infine le zone d’ombra e d’ambiguità che il mondo grillino da sempre si porta con sé. Ad esempio sui temi quali l’immigrazione o l’estensione della cittadinanza ai figli di stranieri nati in Italia. Nel M5S ci sono da sempre posizioni simili a quelle della Lega, alla quale evidentemente non si vuole lasciare il monopolio di battaglie considerate elettoralmente redditizie. Quale sia la posizione del nuovo leader ancora non lo si è capito. Ma diamogli tempo per chiarire e chiarirsi.
Conte ha infine problemi più contingenti e pratici, che s’incrociano comunque con la definizione della sua nuova linea politica. Quando a gennaio 2022 si dovrà scegliere il nuovo Capo dello Stato egli dovrà sedere in Parlamento, per meglio indirizzare le sue truppe e per meglio trattare con le altre forze politiche. La stessa necessità che ha spinto Letta alla candidatura in quel di Siena.
Conte – si dice con ragionevole certezza – dovrebbe candidarsi a Roma nel collegio lasciato libero da Roberto Gualtieri nel caso quest’ultimo venisse eletto sindaco. Coi voti determinati del M5S al secondo turno, come determinanti sarebbero i voti del Pd per Conte parlamentare. Il che apre il capitolo dei rapporti futuri tra i due partiti: un’alleanza che sembrava scontata e inevitabile quando essi erano programmaticamente distanti e dunque più facilmente distinguibili dall’elettorato, rischia di farsi paradossalmente più difficile ora che tra di essi va crescendo la convergenza sugli stessi temi. 


Un po’ quello che è successo a destra tra Lega e Fratelli d’Italia: a furia di somigliarsi troppo e di sottrarsi voti e consensi hanno finito per diventare, da storici alleati, concorrenti e competitori nello stesso campo. Potrebbe accadere anche nel centrosinistra?
Ma questo, per dirla tutta, non è un problema di Conte, che in cuor suo probabilmente aspira al ruolo di aggregatore che fu di Romano Prodi quando nacque l’Ulivo. Se ti dicono che sei l’uomo di riferimento del progressismo italiano e ti invitano nel ruolo di guest star al Festival dell’Unità, perché non prendere tutto questo come un mezzo invito a guidare la futura coalizione di centrosinistra? Questo semmai è un problema di Letta.


Ultimo aggiornamento: Venerdì 13 Agosto 2021, 00:10
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