Costo del lavoro/ L’occasione perduta per la cura choc


di ​Paolo Balduzzi
Con la presentazione della Nota di aggiornamento al Def (Documento di economia e finanza), si apre ufficialmente la stagione del bilancio e si chiude, almeno in teoria, quella delle ipotesi, dei proclami e delle promesse a buon mercato. Finalmente! In questi ultime ore, la politica italiana è tornata a dare il peggio di sé, tra distinguo e gare a dimostrare chi tiene la barra del governo.

Forse coinvolto suo malgrado in questo gioco, anche il Presidente del Consiglio non si è sottratto. E benché faccia bene a ricordare a tutti che a comandare, o perlomeno a dare le linee guida, dovrebbe essere lui (l’ultimo anno a Palazzo Chigi deve avergli insegnato qualcosa, a questo riguardo), il suo intervento lascia piuttosto sorpresi. Ci riferiamo in particolare alle dichiarazioni di Conte sull’Iva, che seguono a ruota quelle del ministro dell’Economia e quelle di Di Maio e Renzi. Tre opinioni diverse, un crescendo di populismo e irrealisticità.

Qualcosa che potrebbe anche divertire, se visto da fuori, ma che al contrario ci preoccupa, se indicativo della solidità della maggioranza. A Gualtieri, che nella giornata di domenica aveva ipotizzato un aumento delle aliquote Iva solo su alcuni beni, hanno risposto subito Di Maio e Renzi, i quali hanno ricordato come questo governo sia nato proprio per sterilizzare completamente l’aumento di 23 miliardi (e anche di più, a regime) dell’imposta. Non contento, nella giornata di lunedì, poche ore prima di portare la Nota di aggiornamento in Consiglio dei Ministri, il premier Conte arriva addirittura a ipotizzare una diminuzione delle aliquote stesse. Certo, la politica vive di iperboli e paradossi, ma queste dichiarazioni così contrastanti in poche ore appaiono eccessive anche alle anime meno pure e agli stomaci più forti.

Da un lato, perché sembra che non ci sia alcuna preoccupazione sulla fattibilità tecnica di tali interventi (le aliquote Iva sono soggette anche a una normativa comunitaria, che non lascia molti spazi a ulteriori diminuzioni delle aliquote più basse), dall’altro perché si continua a tergiversare sulle modalità di copertura di tali interventi, che per essere finalmente strutturali non possono essere continuamente finanziati in deficit. Ma soprattutto perché ciò dimostra come alla classe politica non sia chiaro che la crescita e lo sviluppo di un Paese vanno ben oltre il dibattito sulle aliquote dell’Iva.

La maggioranza cerca venti e più miliardi per l’Iva ma lascia davvero poco al taglio del cuneo fiscale, forse una misura ben più importante e di impatto maggiore sulla crescita economica, sullo stimolo alle imprese, sul benessere dei cittadini e sull’equità tra contribuenti e generazioni. Tagliare le imposte sul reddito delle persone fisiche è un ritornello di ogni Governo, ma poche maggioranze hanno davvero messo mano alla materia. 
Ci provò Prodi una decina di anni fa, mettendoci circa 7 miliardi di euro; ci ritentò Renzi, con i famosi 80 euro (quasi 10 miliardi). In tutti i casi, si tratta di misure che certamente hanno creato sollievo a chi ne ha usufruito, ma che allo stesso modo poco impatto hanno avuto sul rilancio dei consumi e sulla crescita economica del Paese. Se le cifre di cui si parla ora sono addirittura inferiori a quelle già impegnate in passato, è evidente che, al momento, il coraggio che servirebbe ancora manca.

Certo, è più importante la prospettiva. Potrebbe essere più realistico cominciare con poco se questo poco è inserito in un serio e ragionato progetto di riforma fiscale e di rilancio del paese; se invece si tratta di una misura una tantum, elettorale come le promesse che si fanno quando si sa già che l’orizzonte temporale del governo è solo di qualche mese, allora forse meglio mettere quei miliardi direttamente nella riduzione del debito pubblico. Di cui nessuno sembra più parlare ma che resta lì, in attesa che l’Europa ci ricordi quanto sia limitante per la crescita e quanto ciò ci renda sensibili ai minimi aumenti dello spread.

In realtà una via d’uscita ci sarebbe: e sarebbe quella di non spalmare la piccola riduzione del cuneo fiscale su tutta la popolazione ma di irrobustire la parte rivolta alla platea delle imprese, proprio per dare una spinta all’occupazione, e di concentrarla sulle fasce economicamente e socialmente più deboli. Che non sono più, ormai da tempo, i pensionati ma che sono invece i lavoratori e i cittadini più giovani. 
In un clima surreale in cui la preoccupazione principale di alcuni politici sembra quella di tutelare i più anziani, che, ma solo secondo loro, non saprebbero usare un bancomat o una carta prepagata, ci dimentichiamo che chi si batte ogni giorno per costruire presente e futuro, con prospettive di gran lunga peggiori rispetto a chi li ha preceduti. La vera sfida, non solo fiscale, è quella di creare un mercato del lavoro che sia accogliente e che possa valorizzare proprio le generazioni più giovani, preparate e produttive.

Cosa possono fare invece piccole mance distribuite a pioggia per fermare l’emorragia di migliaia di giovani, laureati e non, che ogni anno decidono di trasferire la propria residenza all’estero? La vera discontinuità che il nuovo governo dovrebbe cercare sta tutta qui: nell’avere una prospettiva di medio lungo periodo e non più, come troppo spesso accade, orientata alla prossima tornata elettorale. È una strategia che il paese non si può più permettere. 

Ultimo aggiornamento: Martedì 1 Ottobre 2019, 00:02
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