Senza discontinuità/ Roma ferita così cadono gli alibi M5S


di Mario Ajello
Diversi ma uguali. Roma, dove nacque il mito nazionale della «diversità morale» e del «cambiamento politico», parifica i 5 Stelle a tutti gli altri. E li identifica, o meglio li sprofonda, in quell’ambiente limaccioso e grigio in cui i tradizionali poteri marci erano stati padroni nelle passate gestioni amministrative ma i nuovi arrivati non hanno rotto i meccanismi del malaffare. Anzi parrebbero essersi adeguati al peggio. Cioè alla corruzione e alla tangente. Come nel più classico film horror del buio di Roma. E così il movimento nato e cresciuto al grido «gli anticorpi siamo noi» s’è dimostrato parte del bacillus loci. Una sorta di genius loci al contrario, quello che corrode e distrugge tutto ciò che si trova davanti. 

Se Roma era stata la levatrice del mito della neo-politica a 5 stelle, adesso diventa il palcoscenico maestoso e lo specchio di un tracollo che non è soltanto morale ma è politico e che riguarda a tutte le latitudini il movimento. Ha agito come una livella, rendendo uguali i presunti diversi, questa città.

Ma questo è un dramma e non può esistere il mal comune mezzo gaudio. Occorre invece registrare, con laica preoccupazione, come la vicenda De Vito rappresenti la continuità della corruzione endemica di Roma - «Campidoglio casa di vetro»? Lo slogan non ha retto fin dall’inizio - e il tramonto malinconico di un esperimento di rigenerazione politica a cui i cittadini della Capitale e del resto d’Italia, soprattutto nel Mezzogiorno, avevano creduto perché stanchi di tutto il resto.

Maccheronicamente, si potrebbe dire: qui nascono e qui cascano i grillini, il cui sogno palingenetico doveva partire dalla Capitale, per distendersi dappertutto, ma proprio nella Capitale viene colpito dall’infezione. Fino a diventare, come in queste ore appare chiarissimo, volenteroso carnefice di se stesso. Prima Marra, poi Lanzalone e adesso De Vito sono la contro-storia di M5S che s’impone, diventando più vera della storia ufficiale, sulla retorica propagandistica dell’«onestà» che, nei piani stellati, doveva servire come coperta per la mancanza di capacità di governo. Ma il velo si è strappato. E la nemesi della diversità che si capovolge in continuità racconta che le sacche infette del privilegio, dell’arbitrio e della mazzetta da queste parti non sono state intaccate - stando al corposo lavoro dei magistrati - da chi se ne era proclamato implacabile avversario. 

Il continuum di una storia che si pensava finita sta anche nel fatto - e non può essere una casualità - che la zona più porosa e più permeabile al malaffare s’è rivelata quella del presidente del consiglio comunale, che nelle ultime stagioni ha agito da opposizione rispetto al sindaco del proprio partito.

Finì agli arresti, per Mafia Capitale, di Mirko Coratti («Gli porteremo gli aranci in galera», ironizzavano i 5 Stelle) al tempo di Ignazio Marino, e finisce in carcere adesso De Vito che ricopre lo stesso ruolo che aveva il collega dem. Il mancato cambiamento delle pratiche, delle procedure, degli approcci, l’abiura della trasparenza, il malcostume degli abboccamenti e il richiamo della foresta della tangente: questo il risucchio che s’è riproposto. Con l’aggravante che la sensazione generale era che Roma avesse toccato il fondo e non potesse che far tesoro degli errori del passato, e invece no: il sistema ha trovato, poi si vedrà con quali livelli di gravità, nuovi interpreti e vecchie usanze. E crolla il grande alibi, locale e nazionale. Noi non tappiamo le buche, perché siamo «onesti» e prima, lì dentro, vogliamo vederci chiaro. Noi non facciamo i grandi eventi, perché siamo «onesti». Noi non facciamo le grandi opere, perché siamo «onesti». Ma nel mondo mangiatoia da cui guardarsi, secondo una visione complottistica e paralizzante, le rivendicazioni morali e moralistiche si sono squagliate con sorprendente rapidità. 

Potevano esserci l’occasione e l’opportunità per ricostruire un modello di città e di potere. E invece la Capitale Infetta ha avuto buon gioco su un vuoto di cultura, di visione e di gestione. Roma che si trova a fronteggiare nemici esterni, cioè gli agit prop dell’autonomismo nordista, scopre di avere in casa i suoi agenti disgregatori e non si aspettava, o almeno non fino a questo punto, di vederli intra moenia. E nelle fogge più tradizionali che si potesse immaginare: quelle del clientelismo più spicciolo e devastante. Sull’altare della presunta virtù, che i grillini facevano risalire addirittura a Robespierre, è stata sacrificata la competenza. 

E una buona parte degli italiani, a cominciare da quelli della Capitale, s’è accontentata di questo. Per poi accorgersi, forse, che questo non basta per il funzionamento del Paese e che si tratta oltretutto di una virtù sdrucciolevole e caduca, pronta a rovesciarsi nel suo opposto. E a smentire ogni pretesa di superiorità del tipo: a me non mi cambiano, li cambio io. Così non è andata. E a pagare la fine dell’illusione non saranno soltanto quelli che l’hanno prodotta, cioè i 5 stelle. Ma purtroppo anche tutti i romani. E toccherà per l’ennesima volta, ma con meno forze e con meno speranze, ricominciare da capo. 
 
Ultimo aggiornamento: Giovedì 21 Marzo 2019, 00:08
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