Scienza e pregiudizi/Una guerra in cui perdono i dogmatici

Scienza e pregiudizi/Una guerra in cui perdono i dogmatici - di Francesco Grillo

di Francesco Grillo
“Se lo scientismo è qualcosa, esso è la fede dogmatica nella scienza. Ma questa fede cieca è estranea allo scienziato autentico. Tutti i grandi scienziati furono critici nei confronti della scienza, Furono ben consapevoli di quanto poco noi conosciamo”. Bisogna ripartire dalle parole di Sir Karl Popper, l’ultimo grande filosofo che si è preoccupato di capire come l’uomo produca conoscenza utile per risolvere problemi, per capire cosa è andato storto nel momento in cui scopriamo che una società arrivata al massimo del proprio sviluppo tecnologico, si ritrova impotente di fronte alla prima, vera epidemia globale dell’era moderna. 

DI fronte al dilagare di un nemico invisibile, abbiamo l’urgente, assoluto bisogno di ricordarci che siamo quello che conosciamo. Che il valore di una persona, di un Paese è direttamente misurato proprio da quanta conoscenza possediamo ed in che misura essa è utile per vivere meglio. Che fu un suicidio per l’Occidente (e, in particolar modo, per l’Italia) dimenticare ciò che, per secoli, ci ha, letteralmente, definito.

E, tuttavia, la malattia oscura che ci sta perdendo non si risolve invocando il ritorno degli “esperti” (che, per la verità, non se ne sono mai andati) e di “chi sa”. Perché, mentre eravamo impegnati nell’autocelebrarci, una rivoluzione tecnologica di cui non abbiamo una teoria, ha cambiato, anzi mutato, i processi attraverso i quali estraiamo dalle informazioni indicazioni utili a proteggerci e progredire. Mettendo in crisi molte delle ipotesi scientifiche che consideravamo certezze. Nelle scienze naturali, perché con internet può cambiare, persino, il modo di sperimentare farmaci e la natura della ricerca; in quelle sociali, laddove è proprio questa malattia che rende definitivamente evidente che abbiamo bisogno di un ordine mondiale diverso per governare una globalizzazione di cui non abbiamo più il controllo. La sensazione è che, oggi, siamo bloccati nell’ennesima guerra di religione tra un “popolo” che ha sviluppato ostilità nei confronti dei vaccini, macchine e professori universitari; e, dall’altra, specialisti che litigando tra di loro, agitano certezze come clave. Due dogmatismi che, in fondo, si alimentano a vicenda e hanno bisogno l’uno dell’altra per andare in televisione ed entrare in parlamento. 

Sono, almeno, tre i motivi per i quali la mutazione tecnologica sta mettendo in discussione le istituzioni e gli esperti che per decenni abbiamo utilizzato. Innanzitutto perché i problemi più grandi sono quasi tutti, tecnicamente, nuovi. Lo è, per definizione, un virus mai visto prima e che, dunque, possiamo conoscere solo facendo esperimenti, errori, imparando nella tragedia di dover contare morti e contagi. Così come la recessione che sta arrivando e che affronteremo senza più poter ricorrere ai bazooka delle banche centrali che hanno già svuotato tutti gli arsenali che gli economisti consigliano di utilizzare.

In secondo luogo, tali problemi incidono su strutture sociali anch’esse profondamente modificate: la Sars, una patologia simile al Covid 19, ebbe un impatto molto più limitato, nonostante un tasso di mortalità superiore, perché andò ad incidere su una Cina che viaggiava al proprio interno di meno e che di meno si spostava verso il resto del mondo. Infine, il terzo motivo che rende gli specialisti progressivamente meno utili, è che internet sta connettendo non solo computer, oggetti e corpi, ma anche dimensioni cognitive e politiche. Per affrontare correttamente un’emergenza come quella che stiamo vivendo non basta avere un medico come ministro della Salute (anche se, forse, sarebbe un passo avanti).

Perché la sfida, anche in tempi normali, è manageriale e di organizzazione dei sistemi sanitari; di sviluppo di tecnologie che siano comprensibili agli anziani e che ne riducano il disagio; di confezionamento di precauzioni né eccessive, né deboli per massimizzare la sicurezza e minimizzare il danno per l’economia; di comunicazione per trasformare i cittadini da problema da gestire in parte della soluzione (in Svizzera un servizio militare obbligatorio per tutti serve per assicurarsi che tutti sappiano cosa fare di fronte ad eventi estremi). Non basterà nominare come consigliere un guru, per vincere questa sfida. Così vitale e complessa. Servirà costruire un modo per fare scuola, università, politica, comunicazione, completamente diverso. Forse, come suggerisce Garimberti, dovremmo insegnare la filosofia nelle scuole elementari. Immaginare soluzioni nuove e sperimentarle, come ci avrebbe consigliato Popper. Al quale nessuno avrebbe mai chiesto di appartenere a uno dei mille settori “accademico disciplinari” nei quali abbiamo frammentato la natura. Perdendone il senso.
Ultimo aggiornamento: Domenica 1 Marzo 2020, 10:12
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