Visione distorta/ La locomotiva che non aiuta la rinascita del Paese


di Gianfranco Viesti

Torna la teoria della locomotiva. Questa volta con le parole del nuovo leader 5Stelle Giuseppe Conte in un intervento sul Corriere della Sera: «Il nuovo Movimento guarderà al Nord come non ha fatto a sufficienza fino ad ora. Perché la locomotiva del Paese deve ripartire più forte di prima trainando così tutto il Paese e rendendo possibile lo sviluppo del Sud».

Il meccanismo descritto da Conte, tuttavia, non corrisponde affatto al funzionamento dell’economia italiana. Se il Nord riparte (cosa in sé auspicabile) non traina tutto il Paese e non determina certamente lo sviluppo del Sud. Questo per due motivi di fondo: l’economia del Nord è molto più sviluppata di quella del Sud; ed è profondamente integrata in quella europea. 

Quali sono, difatti, i meccanismi in base ai quali lo sviluppo di una regione favorisce quello delle altre? 
Il primo è attraverso le importazioni. Se il Nord cresce ha bisogno di comprare più beni e servizi, pur essendo un’area parzialmente autosufficiente. Ma quali beni e servizi compra, e da chi? Quelli tecnologicamente più avanzati, ci dicono i dati, che non è in grado di produrre da solo, dalla Germania e dalle altre aree più innovative del mondo; quelli più competitivi sotto il profilo dei costi, dai Paesi dell’Est Europa e dall’Asia. Compra molto poco dal Centro-Sud, ed in particolare dal Sud: proprio perché sono aree con una capacità produttiva più limitata. Non a caso nel Pnrr si paventa che con la ripresa dell’economia italiana ci sia un sensibile aumento dell’import. 

Il secondo meccanismo è lo sviluppo delle sue imprese, che crescendo possono pensare a nuove localizzazioni produttive: ma, daccapo, i dati ci dicono che questi investimenti si dirigono, alternativamente, sui mercati esteri di sbocco più interessanti, o nelle localizzazioni straniere a minor costo.
Infine, se il Nord cresce ha bisogno di più lavoratori. Le vicende di questo secolo ci raccontano che arrivano lavoratori dall’estero (per la verità pochissimi negli ultimi anni) per gli impieghi a salario molto basso. E arrivano lavoratori più qualificati dal resto del Paese: questo è un bene per loro (che hanno nuove opportunità, ma a patto di muoversi) ma è un serio problema per le loro aree di origine, che perdono giovani ad elevata formazione: potenziali imprenditori, tecnici qualificati. Classi dirigenti, anche politico-amministrative. E ne hanno un sensibile danno.

Il mancato impatto positivo della crescita delle aree più forti su quelle più deboli non è tema solo italiano, ma di tutti gli Stati con disparità interne e fortemente integrati nell’economia-mondo. L’Inghilterra è segnata dalla netta separazione fra una vivace economia londinese, ampiamente inserita in quella mondiale, e una condizione stagnante delle aree, in quel caso, del Nord.

La “swinging London” non aiuta in nessun modo i disoccupati di Sheffield. Così come la ricchezza non “sgocciola” dai più abbienti ai più poveri, nell’Europa contemporanea la crescita economica non sgocciola automaticamente dalle regioni e città più forti verso quelle più deboli. Non a caso il nuovo secolo ha portato, più che in passato, a fenomeni di polarizzazione geografica dello sviluppo economico continentale.

Dove porta questo ragionamento? Ad auspicare che Milano e il Nord più forte non crescano? Ovviamente, non è questo, ci mancherebbe. Porta a ritenere che la sua crescita non sia affatto in grado di trainare l’intero Paese e ancor meno di fare sviluppare il Sud e di far riprendere i territori in indebolimento del Centro e dell’estremo NordOvest. 

È comprensibile e opportuna l’attenzione della politica, e della politica economica, per i territori più forti; anche per conservarne, ampliarne le capacità industriali e tecnologiche. Ma questo non deve creare confusione sulle priorità della politica economica italiana: che non può che essere quella di evitare che solo una limitata parte del Paese agganci una sostenuta ripresa (come lasciano temere le previsioni per il 2021-22) confidando in un assai improbabile “effetto locomotiva”. L’intera Italia crescerebbe troppo poco. 
La priorità, allora, deve essere quella di ampliare la capacità produttiva, determinare condizioni più favorevoli per l’attività delle imprese, rilanciare le aree urbane, aumentare la formazione dei giovani (con opportunità di lavoro dove vivono), nel Mezzogiorno, e in tutte le aree deboli o in indebolimento del Paese (ad esempio nelle aree interne, lungo la dorsale appenninica). Mirando davvero e con convinzione, come si sostiene nel Pnrr, alla riduzione delle disuguaglianze territoriali.

Questo è nell’interesse di tutti. E che sia così ce lo dimostra proprio la vicenda dell’iniziativa europea della “Next Generation”, con la decisione di grandissima valenza politica di destinare la quota maggiore delle risorse proprio ai Paesi più deboli o in difficoltà, come Italia e Spagna. 
La cancelliera Angela Merkel non ha detto: facciamo ripartire la Germania così traineremo l’intera Europa e consentiremo lo sviluppo dei Paesi mediterranei. Ha detto: investiamo prioritariamente le nostre risorse nel Sud dell’Europa. Perché così fa gli interessi di lungo termine del proprio Paese: l’economia tedesca va molto meglio se Italia e Spagna ripartono.  Per quanto possa sembrare paradossale, è la crescita delle aree deboli la vera locomotiva in una economia integrata, in Italia e in Europa.


Ultimo aggiornamento: Sabato 14 Agosto 2021, 00:08
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