In ritardo sul futuro/ L’antiquata “continuità” che rallenta le riforme


di Francesco Grillo

La continuità con il passato. È questo il rischio che corre l’Italia che sta provando a uscire dalla sua crisi peggiore ed entrare in un futuro di cui non riusciamo, neppure, ancora a immaginare i contorni. Ed è questa la sindrome che può colpire i “Recovery plan” che l’Italia sta preparando con la promessa di una trasformazione da realizzare in sette anni. E, in effetti, di piani ce ne sono due: non solo quello di Rilancio e Resilienza (Pnrr) sul quale stiamo litigando da settimane; c’è anche l’“accordo di partenariato” che governerà la spesa dei fondi strutturali e che per tre quarti saranno spesi nel Mezzogiorno per riuscire nel “miracolo” di segnare una svolta nella più antica delle questioni italiane. 


La cosa curiosa è, però, che mentre discutere di Pnrr è diventato così di moda che vi si consumano crisi di governo, di fondi strutturali si continua a parlare solo tra pochissimi addetti ai lavori. Eppure, le due partite sono quasi equivalenti per importanza finanziaria e posta in gioco. Da una parte, sul Pnrr, ci giochiamo 65 miliardi di euro (al netto di prestiti che vanno restituiti); dall’altra 57 miliardi (ai quali va aggiunto il cofinanziamento di Stato e Regioni). Per entrambe i piani è, però, indispensabile fare uno sforzo che sia all’altezza di tempi completamente nuovi. Occorre uscire dall’inerzia di procedure amministrative non concepite per imprimere accelerazioni. Occorre poi concepire una strategia unitaria che non distingua per fonte di finanziamento.


E occorre infine creare un luogo che la governi mettendo insieme la conoscenza dei vincoli e l’ambizione di superarli. In realtà, la difficoltà che il Governo sta trovando nel concepire i due documenti di programmazione, sono speculari. Da una parte sulla risposta italiana al Next Generation EU scontiamo il costo di aver dovuto avviare una macchina - per il disegno e l’esecuzione del piano - che, praticamente, non esisteva. Il regolamento del “Recovery and Resilience Facility” è, del resto, completamente nuovo.

Anche alla Commissione Ue si sono trovati a dover creare dal nulla una struttura presso la Direzione Generale degli Affari Economici e Finanziari che, mai, si era occupata di un piano di investimenti di questa entità e il cui commissario è, per fortuna, Paolo Gentiloni. Il problema dei fondi strutturali è opposto. Negli anni si è aggregata attorno alla gestione delle politiche di coesione una comunità professionale stabile. Troppo stabile. Ormai le stesse gare con le quali l’amministrazione pubblica chiede competenze di cui si è pericolosamente sguarnita, fanno la bizzarra ipotesi – pratica questa denunciata dall’Antitrust e dell’Anac - che esista una comunità autoreferenziale di esperti, per entrare nella quale devi esserne già parte. Ciò ha l’effetto di escludere decine di università (persino italiane) e, soprattutto, giovani ricercatori e consulenti che dopo aver valutato ponti o investimenti digitali in giro per il mondo, vorrebbero mettersi a disposizione. Laddove il materiale dell’energia di cui abbiamo assoluto bisogno è fatto - ancora più che di soldi - di intelligenza, creatività e voglia di vincere. 


Sui fondi strutturali grava dunque, e nonostante l’entusiasmo del ministro Provenzano, una sindrome della continuità che pesa come un macigno se volessimo farne la leva per strapparci tutti ad una strisciante rassegnazione di chi ha visto convegni sul Mezzogiorno per 150 anni senza che nulla cambiasse mai sul serio.

Mille volte è stato detto - ed è l’unica, parziale notizia che riesce ad arrivare sulle prime pagine dei giornali - che l’Italia è in strutturale ritardo nell’utilizzazione delle risorse: è vero e, nonostante il grande sforzo dell’Agenzia della Coesione, siamo inchiodati al penultimo posto. Ad oggi, cioè 17 giorni dopo la conclusione dell’ultimo periodo di programmazione 2014-2020, abbiamo speso poco più di un terzo dei finanziamenti che avemmo a disposizione per i sette anni appena finiti: dietro di noi c’è solo l’Austria. 


E, tuttavia, c’è molto di più. C’è che i fondi strutturali non riescono più a fare la differenza né per il nostro Paese e, neppure, più in generale, a livello europeo. Per quanta passione alcuni ministri abbiano dedicato alla questione (Provenzano, lo stesso Barca) oggi il Pil del Mezzogiorno continua, come sottolinea Luca Bianchi, ad essere di 10 punti inferiore ai livelli precedenti alla crisi finanziaria del 2008, mentre il Centro Nord ha quasi recuperato il tracollo. Ma, in generale, è vero per l’Unione Europea (come dimostra il grafico che accompagna questo articolO) che le politiche di coesione non riescono più a ottenere il proprio risultato primario che è, ancora, quello di ridurre i divari. 


E, allora, dobbiamo cambiare passo. Abbiamo il disperato bisogno di farlo e per riuscirci sono necessari due ingredienti. Innanzitutto, i due “Recovery plan” (ci si aggiungono anche il fondo di coesione e i programmi per le aree rurali) vanno fusi in un’unica strategia. Non possiamo più ragionare per fonti finanziarie perché ciò ci appiattisce sulle logiche perdenti degli adempimenti e delle certificazioni. Esistono vincoli e regolamenti diversi (sui quali la politica deve fare proposte di riforma), ma diventa obbligo morale condividere un’unica idea di quale Paese vogliamo costruire spendendo 113 miliardi di sovvenzioni e 127 miliardi di prestiti. Da questa idea – tarata sui bisogni del Paese Italia e non su finalità troppo generali che l’Unione Europea, comunque, indica – derivano obiettivi concreti, riforme coerenti (alcune richiedono costo zero e quintali di coraggio). Tempistiche precise e responsabilità stringenti. 


Il secondo punto talmente divisivo da far saltare governi è quello di chi fa tutto ciò. Ma è proprio la necessità assoluta di attaccare responsabilità a obiettivi che può sciogliere il nodo delle mediazioni infinite. Chi finalizza i piani (e siamo in ritardo), li rivede nel tempo (ciò sarà fondamentale perché in sette anni può succedere di tutto) e ne controlla la realizzazione, deve accettare di legare carriera e stipendio ad una partita che giochiamo per i nostri figli. La struttura deve essere unica, quanto la strategia. E, ovviamente non può essere solo pubblica (perché non si può chiedere alla PA di prendere rischi), ma, neppure, può essere solo privata (per non essere catturati da conflitti di interesse). Deve, anzi, mettere insieme esperienze che – da sole – sarebbero gravemente insufficienti e, potrebbe, infine, essere un’agenzia per sottrarla ai cicli elettorali. 


Il punto, però, è che i due Recovery plan siano costruiti attorno alla stessa idea di poter ancora - all’ultima spiaggia – costruire un futuro; e alla voglia di giocarcisi tutto.


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Ultimo aggiornamento: Lunedì 18 Gennaio 2021, 00:07
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