Adriana Albini, biochimica di fama internazionale: «Le donne si ammalano e muoiono meno di tumore»

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di Marina Cappa

Si occupa della salute di tutti, ma verso le donne ha uno sguardo speciale. Adriana Albini, veneziana di 66 anni, biochimica, è docente di Patologia generale all'Università Bicocca ed è nella direzione scientifica dello Ieo, Istituto europeo oncologia. Nel lungo curriculum costruito in Germania, Stati Uniti e Italia, l'attenzione ai problemi femminili quelli delle pazienti e quelli di chi fa ricerca si trova nella partecipazione all'Osservatorio nazionale sulla salute della donna, al direttivo dell'American Association for Cancer Prevention e al programma Women in Cancer Research. Si aggiunge era il 2020, lei l'unica italiana il riconoscimento della Bbc come una delle 100 donne più influenti nel mondo. Il prossimo 4 settembre la si potrà ascolta al Festival della mente di Sarzana, dove parlerà di Stile di vita e movimento per una vita sana.


Alimentazione calibrata, niente fumo né alcol, attività fisica: in quale altro modo possiamo vivere sani?
«Intanto con la pratica, perché queste cose le sappiamo ma le pratichiamo poco. Sono importanti poi gli elementi legati allo stress e la localizzazione geografica. Perché il rischio tumore è legato alla ricchezza o povertà delle persone, a fattori etnici, socioeconomici, geografici che incidono sulla speranza di vita».


Rischiano di più donne o uomini?
«Le donne in generale si ammalano e muoiono meno di tumore. Fanno più screening, in parte sono protette dal sistema ormonale. D'altro canto, sono più sensibili ad alcune patologie come l'Alzheimer e quelle autoimmuni. Ma anche al dolore cronico e alla depressione. Inoltre, noi invecchiamo prima».


Parliamo dell'amore delle scienziate. Sposata con due figli, lei passa in laboratorio 12-14 ore al giorno. Come si giostra?
«Ho dovuto sposare un americano, le mie esperienze in Italia non erano state di parità di genere. Anche in Germania: ci sono arrivata a 25 anni, avevo diversi ammiratori ma non erano adatti al matrimonio. D'altra parte, all'Istituto Max Planck di Monaco di Baviera in cui lavoravo, su 30 laboratori solo uno era diretto da una donna».


Il marito americano è più adatto alla parità di genere?
«Fa le stesse cose che faccio io, ma non c'è competizione. Nella divisione dei compiti, io sto più ore in laboratorio, lui ha più tempo e quindi fa la spesa e cucina».


Così, lei ha potuto fare carriera...
«Resta però il fatto che le carriere femminili sono più difficili.

Ed è difficilissimo arrivare in cima. Io sono stata vicedirettore scientifico dell'Istituto dei tumori di Genova, direttore di dipartimento a Genova e a Reggio Emilia, direttore scientifico di una fondazione. Però, pur avendo due idoneità alla direzione, gli Irccs alla fine hanno sempre scelto un uomo».


Come lo spiega?
«Forse loro sono più bravi politicamente. Serve una scuola di formazione, per riuscire ad avere una leadership senza essere fastidiose: una donna visibile e in carriera sta sempre antipatica. Ma anche nel giornalismo, il 90% dei direttori resta uomo...».


Negli Stati Uniti va meglio?
«Sono più sensibili sull'argomento. Women in Cancer Research, per esempio, offre alle scienziate corsi di leadership femminile, consigli pratici su come presentare il curriculum o gestire il tempo. Avrei voluto lo facessero anche le università italiane. Perché per una donna già scegliere cosa indossare non è facile».


Non basta il camice?
«In laboratorio. Ma quando vai a un colloquio di lavoro, fai un concorso, presenti un lavoro al congresso? Metti la gonna che chissà cosa pensano o i pantaloni che sono troppo maschili? I tacchi o le scarpe da ginnastica? Il look può determinare quanto ci si sente a proprio agio».


La situazione migliora o peggiora?
«Si va ad alti e bassi. Nella ricerca migliora, ma abbiamo visto con il Covid che la maggior parte delle facce in tv erano comunque uomini, le donne tendono a essere invisibili. Io lavoro con l'associazione Ewmd per la parità di genere, e facciamo campagne per le donne manager. E per la lingua, perché le parole indicano la disparità. Come quando si dice di una scienziata ed è anche mamma. Mai sentito che uno scienziato è anche papà».


Lei è anche campionessa di scherma: lo sport aiuta la scienziata?
«Fa bene. Per la concentrazione, il rispetto dell'avversario, la combattività. La velocità: se un bicchiere sta per cadere dal tavolo, riesco ad afferrarlo».


Non so come faccia con il tempo, ma scrive pure romanzi.
«Mi hanno commissionato adesso un'autobiografia, vorrei raccontare come ho affrontato una serie di cose, sentimentali, di lavoro, successi scientifici: un romanzo di formazione che possa essere condiviso da tutti. In passato invece ho scritto gialli».


Che tipo di gialli?
«Ambientati in laboratorio: molecole e amori».
 


Ultimo aggiornamento: Venerdì 19 Agosto 2022, 14:55
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