Cristina Bowerman: «La mia cucina senza confini rispecchia un'anima ribelle»

Cristina Bowerman: «La mia cucina senza confini rispecchia un'anima ribelle»

di Rita Vecchio
Quel suo ciuffo rosa è già atto di ribellione. A Cristina Bowerman non è mai mancato il coraggio. Per la chef stellata di Glass Hostaria - il ristorante a Trastevere in cui si ritrova tutto il suo stile - il successo è sinonimo di passione. E il viaggio di andata e ritorno Italia - America, senza dimenticare mai le sue origini pugliesi, è stato (ed è) crescita continua.
Una vita in movimento.
«Vero. Ma niente è per sempre. La passione per i fornelli l'ho fin da piccola. A casa dei miei genitori si discuteva già dal venerdì su chi avrebbe cucinato la domenica. Ma è diventato il mio lavoro strada facendo. Prima la laurea con lode in Giurisprudenza a Bari, poi il procuratore legale, poi il trasferimento a San Francisco. Finché mi proposero di diventare Menu production manager».
Che significava?
«Assaggiavo i piatti di grandi ristoranti e valutavo l'italianità del menu. Da qui mi spostarono al reparto grafico, scoprendo per la prima volta la parte creativa di me. Così, fuori dal mio orario di lavoro, iniziai a studiare per imparare di più».
E nel frattempo, cucinava.
«Per amici e parenti, per scherzo. Mi cominciarono a proporre di cucinare nelle loro case, a pagamento. Ho pensato: se sono felice quando cucino, può diventare il mio lavoro futuro».
E cosa accadde?
«Che (forse per destino) ad Austin, città dove vivevo, aprirono la scuola di arti culinarie e io decisi di frequentarla. A quel punto, mi sono armata di buona volontà: tre lavori insieme per poterla pagare».
Quali?
«La disegnatrice grafica all'alba, davo lezioni di italiano il pomeriggio. E alla libreria Barnes & Nobles di notte, così leggevo anche. Mesi duri. Ma era quello che volevo. Il passaggio dallo chef Davide Bull e poi l'Italia. Nessuna gavetta da Marchesi o da altri. Questo il mio vero punto di forza: avere uno stile non riconoscibile e tutto mio. E quando me lo fanno notare, è il complimento più grande per me».
E Roma?
«Per distinguermi dagli americani dovevo tornare in Italia. E Roma è stato un caso: la mia migliore amica abitava qui. E Troiani al Convivio, il mio primo esperimento».
Però il cognome americano l'ha tenuto.
«È quello del mio ex marito. Mio padre ogni tanto mi prende in giro. Ma i miei mi hanno sempre lasciato libera. Grazie a loro ho capito che per avere successo devi fare le cose che ti piacciono. Semmai un giorno vorrai tornare dall'America, ti prometto che non ti chiederò mai il motivo, mi disse mio padre in aeroporto. Così mi diede forza. Ero una capobanda. Ho fatto scelte estreme, quello sì. Ma sempre in modo responsabile. A Luca, mio figlio di 12 anni, insegno questo».
Essere chef donna aiuta?
«Resta un mestiere che ha bisogno di tempo. Abbiamo fatto dei passi avanti, ma ancora se ne devono fare».
La sua cucina?
«È figlia del mondo, curiosa e senza confini. Sono da sempre contro il chilometro zero perché il cibo è l'unico mezzo di comunicazione che unisce i popoli».
Il suo pregio?
«Dietro l'apparenza da dura, ho una sensibilità che concedo a pochi».
Il ciuffo: cambia colore?
«Blu, arancione, verde. Il rosa è solo l'ultimo. Sono riconoscibile così e non lo cambio. Come fosse una forma di ribellione».
Sa che è di grande esempio?
«Lo spero. Ho incontrato ragazze condizionate dalla società. E non va bene».
«Le manca l'America?
«Tantissimo. Difficile spostarmi. Almeno per ora».

riproduzione riservata ®
Ultimo aggiornamento: Venerdì 13 Marzo 2020, 22:40
© RIPRODUZIONE RISERVATA