Daniele Lippi: «Nel mio sedano alla vaccinara contemporaneità e tradizione»

Daniele Lippi: «Nel mio sedano alla vaccinara contemporaneità e tradizione»

di Rita Vecchio
Giovane, bravo. Daniele Lippi sa il fatto suo. Lo chef che da otto mesi è alla guida di Acquolina - ristorante stellato all’interno dell’Hotel The First Roma ARTE, nel cuore della capitale - ha dato una virata nel senso di mediterraneità, ricerca e materia prima. Ha raccolto l’eredità dello chef Alessandro Narducci, scomparso in un incidente stradale insieme a Giulia Puleio, e rilegge la tradizione romana in chiave contemporanea. 

Da dove parte?
«La mia passione? Da mio nonno Rolando e dalla mia famiglia in generale. Aveva un ristorante a Roma, zona Eur. Era un mattatore libero, si divideva tra cucina e sala. Mi ricordo le sue pennette al salmone, retaggio anni ’70. Da lì, per me è stato tutto un tramandare, nel mio essere per metà romano e per metà umbro». 

Quindi scelta facile. 
«No. All’inizio mi ero iscritto a ingegneria informatica. Ma dopo tre mesi dall’inizio dei corsi, dissi a mia madre che volevo diventare cuoco. Grande dispiacere per lei (aveva già pagato tutte le rette), ma mi diede la possibilità di una seconda opportunità. Le sono ancora grato. Per cui ho lasciato l’università e sono andato a fare il corso di cucina». 

Era contento? 
«Felice. Sono stato serio fin da subito, ho puntato al mio obiettivo, anche e soprattutto perché non volevo dare ai miei genitori un ulteriore dispiacere. Arrivavo a lezione un’ora prima e non me ne perdevo una». 

E poi?
«Ho cominciato ad andare a bussare alle porte degli chef. Sono partito dal Convivio di Angelo Troiani, il pomeriggio stesso che ho finito il corso. Sono passati dodici anni da allora. Ringrazio Troiani, perché non si trova facilmente uno chef che ti dà la possibilità di girare. Sono stato a Parigi da Yannick Alléno, ad Alba da Enrico Crippa, a Chicago da Grant Achatz, a Barcellona da Paolo Casagrande». 

La bravura di uno chef dove sta?
«Nel filtrare conoscenze e ciò che osserva. Non è solo il piatto finale che conta».

Un piatto che le ricorda nonno Rolando?
«Il sedano alla vaccinara. Il segreto di questo piatto romano, era per lui il sedano». 

Cosa significa per Lippi la parola cucina?
«Territorio, tradizione, prodotto. Senza dimenticare la contemporaneità».

Un piatto che la rappresenta? 
«Il Topinambur come fosse un carciofo. Chiudendo gli occhi non pare di mangiare una patata. Ma anche La Capasanta è il Midollo, nato perché si scambiano vicendevolmente alla vista». 

Primo piatto in assoluto?
«Una carbonara, orrenda ovviamente. Pasta scotta e uova con formaggio a mo’ di frittata messi sopra. Era la foga del preparare che avevo dopo che tornavo da scuola, affamato». 

La sua frase? 
«Ogni creazione ha bisogno del suo tempo. Per ora sto lavorando a un piatto che viaggerà dal sud Italia all’America, “un po’ scapece un po’ carpione un po’ cevice”. Sarà una sorpresa».

Che fa nel suo tempo libero? 
«Cerco di mantenermi in forma. La vita del cuoco sta cambiando, per fortuna. Non si può stare dall’alba a notte fonda ai fornelli. Si perde concentrazione e passione, e non sarebbe produttivo. Sono dell’idea che la vita del cuoco debba essere vivibile. Nella testa e nel pensiero».
Ultimo aggiornamento: Sabato 29 Febbraio 2020, 08:24
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