E non è un caso. La missione della scuderia di Detroit - per ammissione del suo boss Berry Gordy - era proprio «togliere i ragazzi neri dalle strade, facendoli entrare da una porta come sconosciuti e uscire dall’altra come star». E soprattutto: produrre black music fatta e controllata dai neri, ma destinata anche ai bianchi. Musica mainstream, melodica e accattivante, fondata sui sacri dogmi del ritornello e del groove. E non c’è dubbio che, assieme a Diana Ross e Michael Jackson, Wonder sia stato uno dei massimi interpreti di questa rivoluzione. In primis per il suo talento compositivo - un riuscito miscuglio di istintività soul-funk-r’n’b e scrittura pop, con un uso sempre calibrato dell’elettronica - ma anche per le doti vocali, per le eclettiche virtù di multi-strumentista (suona indifferentemente piano, chitarra, basso, batteria, percussioni e armonica a bocca) e per il carisma da profeta della pace e dei diritti dei neri americani.
La matrice soul, in lui, è sempre stata solo il punto di partenza da cui modellare nuovi ritmi e nuove folgoranti intuizioni melodiche. Un percorso culminato nei suoi capolavori su 33 giri degli anni 70 (Talking Book, Innervisions, Songs In The Key Of Life) ma che ha continuato sempre a sedurre il pubblico, dall’exploit della colonna sonora di The Woman in Red a tutte le performance e collaborazioni che hanno costellato la sua carriera (memorabile, ad esempio, quella con gli Eurythmics per There Must Be An Angel). Una parata trionfale da 25 Grammy e oltre 100 milioni di copie vendute, a partire dal primo singolo Fingertips, improvvisazione live di armonica che lo ha catapultato a 13 anni (più giovane artista di sempre) in vetta alle chart. Ripercorrere la sua ascesa vuol dire mettere le mani in un repertorio impressionante di canzoni entrate nella memoria collettiva: Superstition, For Once In My Life, Isn’t She Lovely, You Are The Sunshine Of My Life, Sir Duke, Master Blaster, I Just Called To Say I Love You, solo per citarne una minima parte. Il tutto senza mai perdere l’umiltà e la dolcezza che appartengono ai più grandi.
Proprio una meraviglia, di nome Stevie. Leggi l'articolo completo su
Leggo.it