Ecco Ernia, Professione rapper «Ma resto fuori dagli schemi»

Un rapper che esce dall'immaginario del rapper. Ernia, il cui vero nome è Matteo Professione, non ha Rolex, maglie Gucci e denti d'oro. Un po' fuori dagli schemi, tanto che per qualcuno è il rapper colto. A un anno da Come uccidere un usignolo/67, esce oggi con il nuovo disco, 68.


Le piacciono i numeri?
«Quando ho pubblicato 67, sapevo che ci sarebbe stato il 68 (ride, ndr). È l'autobus sfigato che usavo spesso per arrivare da Bonola a porta Genova, dal quartiere periferico di Milano dove vivevo e vivo, al centro».

Immagino sia una metafora
«Sì. Volevo rappresentare il viaggio che mi ha portato al disco d'oro e al successo».

È stato difficile?
«Molto. Dopo lo scioglimento di Troupe D'Elite, band in cui c'era pure Ghali, avevo anche smesso di fare musica e mi ero trasferito a Londra».

Come mai?
«Perché era difficile fare rap. Non andava di moda, non era sempre capito ed era pieno di pregiudizi. Il rap, poi, era spesso una roba di nicchia, per figli di papà».

Sembra si voglia distaccare dagli altri rapper.
«Faccio questo lavoro non perché adesso fa figo o perché si fanno soldi. Era quello che ho sempre voluto fare, continuando a rispettare chi ha iniziato prima: Noyz Narcos, Marracash, Guè Pequeno».

Ghali lo sente ancora?
«No. Siamo diversi e quando si hanno incomprensioni, non è facile capirsi».

Soldi, droga, il carcere e pezzi come No Pussy, La Paura, King QT. Che tipo di messaggio vuole mandare?
«Quello che sono oggi dopo esperienze che non mi vergogno di raccontare. Quando si è ragazzini, per dimostrare di essere maschio alfa o di essere forte, si è davvero cazzoni».

Nelle tracce questo emerge.
«Sì, ma non mi auto-celebro».

Stasera l'instore a Milano, l'11 settembre a Roma (Discoteca Laziale). E poi il tour. Dove, quando e come sarà?
«Ancora non so bene. Vorrei chiudere a Milano e non vorrei avere una band».
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