Raccontare Maradona è impossibile, lo capì quel folle geniaccio di Emir Kusturica che a un certo punto abdicò facendo l'unica cosa possibile, mostrarcelo con i propri occhi. C'è più passione, amore e lucidità nel Diego che in Youth di Sorrentino palleggia con una palla da tennis e in piscina, innocente, dice a Paul Dano «anche io sono mancino» che nell'antieroe tragico, colluso con la camorra e incarcerato da Ferlaino e i napoletani che tratteggia il grande documentarista anglosassone.
Già applaudito per Senna e premio Oscar per Amy, Kapadia non ha più per le mani le icone, i santini, dall'eroe borghese senza macchia e con qualche paura (il pilota brasiliano) alla Janis Joplin rediviva vittima dei maschi e del maschilismo, col padre opportunista e i fidanzati sbagliati (Winehouse), ha un uomo sfaccettato, indecifrabile, vittima (del sistema) quanto carnefice (nella vita privata), figlio e fratello attento e devoto quanto padre assente e distratto.
Il cineasta, nelle 1000 ore di materiale inedito, scova qualche intuizione: il Diego che dice sulla fuga da Napoli «erano centinaia di migliaia ad accogliermi, ora non c'è nessuno a salutarmi» così come un primo piano malinconico e tragico a una festa di quelle in cui era costretto ad andare. Diego, come dice la sorella Maria (splendida e potente, va detto, la scelta di affidare le testimonianze solo alle voci e non alle immagini), era quel ragazzo che «a 15 anni aveva tutto il peso del mondo addosso, dalla famiglia a un paese che aspettava il suo talento. Troppo per chiunque».
Kapadia preferisce giudicarlo, incapace di intuirne la complessità. Diego non va spiegato, ma vissuto, sentito dentro. Non va giudicato, ma al massimo capito. Con quel materiale poteva venire un capolavoro, ma forse ci sarebbe voluto Gianni Minà dietro la macchina da presa. Leggi l'articolo completo su
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