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«In tutti i miei film, con la mia co-sceneggiatrice e compagna di vita Valentina Ferlan, partiamo dall’idea di famiglia, in questo caso intesa anche come comunità, e ogni volta chiamiamo in causa per primi noi stessi chiedendoci cosa faremmo se ci trovassimo in quella situazione. Io non metterei la mano sul fuoco nemmeno sul comportamento mio o di mio figlio: è bravissimo ma non è impossibile che, come ne "I nostri ragazzi", si ubriachi e uccida qualcuno a calci».
«Amiamo i personaggi pieni di punti interrogativi – aggiunge Ferlan – Quelli che vivono in bilico e potrebbero fare una cosa o il suo opposto. Abbiamo scelto di ambientare la storia nel Nord-Est perché sarebbe più semplice e meno preoccupante se tutto ciò avvenisse in un ambiente disagiato, dove non ci sono i mezzi per fare le scelte giuste». I personaggi di questa storia, invece, gli strumenti li hanno, ma hanno anche delle caratteristiche che associano ognuno di loro a un peccato capitale. L’accidia per Michela Cescon (unica assente alla conferenza stampa perché impegnata sul set del suo primo film da regista), la gola per Storti, la lussuria per il prete, ad esempio.
«Per me il vizio più grave nel nostro paese oggi è l’intolleranza – dice Gallo – Il film parla anche di questo e dei discorsi da bar che si sentono in giro. Il personaggio della domestica rumena, poi, è come se fosse invisibile: è la più debole e non ha possibilità di ottenere giustizia». «Attenzione però - avverte De Matteo - I nostri film sono affreschi, mai giudizi. Anche perché i primi imputati saremmo noi».
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