"Non è stata solo la mafia a uccidere Falcone". Carlo Sarzana di Sant'Ippolito riaccende i riflettori sulle indagini

ROMA - «Nella strage di Capaci erano coinvolte pure ‘entità’ non mafiose». A venticinque anni dalla strage di Capaci appunto, avvenuta il 23 maggio 1992, a portare sotto i riflettori i tanti misteri rimasti insoluti è Carlo Sarzana di Sant’Ippolito, presidente onorario aggiunto della Corte di Cassazione, membro dell’Ufficio legislativo del Ministero della Giustizia, autore del libro “Giovanni Falcone e Paolo Borsellino Le cose non dette e quelle non fatte”,  basato su documenti inediti, appena pubblicato da Castelvecchi.


Quali sono state le “omissioni” alle quali fa riferimento nel titolo del volume?
«Penso prima di tutto alla sicurezza. Per risparmiare un po’ di gasolio, si è deciso di impedire l’uso dell’elicottero, che avrebbe dissuaso gli attentatori. E penso alle indagini, in particolare  all’agenda sparita, al pc pulito, agli strani soggetti presenti in zona, a Capaci, subito dopo la strage, ai tanti punti volutamente mai indagati. Nel caso di Falcone, c’era perfino la possibilità che il suo telefonino fosse stato clonato ma nessuno ha approfondito. Sono stati commessi errori e negligenze enormi. Le borse di Falcone erano due, si  è parlato sempre solo di una e peraltro è stata trattenuta per quattro giorni a Palermo, nonostante il Procuratore la richiedesse con forza. Cosa c’era nel pc che doveva essere ripulito? E perché Borsellino non veniva sentito dalla Procura di Caltanissetta? Lo hanno ucciso il giorno prima della data in cui la Procura si era decisa a incontrarlo. Nella strage di Capaci erano sicuramente coinvolte ‘entità’ non mafiose».

Qualcuno nello Stato ha voluto insabbiare?
«Credo proprio che ci siano stati pezzi di istituzioni che hanno lavorato perché non si scoprissero cose molto importanti. Nelle parti cancellate del pc di Falcone c’erano gli appunti del viaggio a Washington per un possibile colloquio con Buscetta. Non è stato trovato nulla. Non solo. C’è un aspetto fondamentale della strage che nelle indagini è stato totalmente trascurato. Sul luogo, subito dopo la strage, sono arrivati alcuni individui che si sono presentati come agenti. Significa che nella zona c’erano delle persone e non erano mafiose. Un fotografo che stava facendo degli scatti da quegli agenti è stato strattonato e costretto a lasciare il rullino. Cosa poteva aver fotografato che non doveva essere visto? Queste cose vanno al di là della mafia. Chi ha ucciso Falcone e Borsellino, voleva far ricadere le colpe sulla mafia del territorio».

La strage dunque sarebbe stata “progettata” alla maniera di Cosa Nostra da altri?
«Conosco bene l’ambiente siciliano e corleonese: sono contadini furbissimi e pronti a uccidere ma non hanno le capacità organizzative che sono state messe in campo per uccidere Falcone. Si pensi al camion di tiratori scelti giunto a Roma proprio per uccidere Falcone e poi fatto tornare indietro da Riina. Qualcuno gli aveva imposto di cambiare scena. Ma chi? Lo ripeto: si volevano far ricadere le colpe sulla mafia del territorio. In questo modo venivano fatti fuori Falcone e Borsellino e la mafia siciliana veniva messa in ginocchio. Era inevitabile: lo Stato avrebbe dovuto reagire».

Cosa potevano aver scoperto Falcone e Borsellino di così pericoloso?
«Danny Casolaro stava indagando su Octopus, che riguardava anche l’Italia. E per questo si era messo in contatto con Falcone. Casolaro è stato ucciso. E sono state uccise pure 27 persone a lui vicine. Le mafie ormai sono collegate, la siciliana era vecchia, sorpassata. Per questo oggi che la mafia italiana è diventata perdente, seguire solo la pista nel territorio è un discorso fallimentare. Octopus esiste e Falcone stava indagando in merito. Borsellino è stato ucciso perché ha proseguito sulla strada intrapresa dal collega».

Era possibile evitare la morte di Falcone?

«Falcone era un uomo di sangue, non un santo come vogliono farlo apparire ora. Un uomo straordinario, con una grande voglia di vivere. A Roma hanno trovato il modo di umiliarlo per cercare di liberarsene, è stato mortificato e chi  lo ha messo alle strette non ha mai pagato. Se fosse stato a Palermo, con la sorveglianza che aveva, difficilmente lo avrebbero fatto fuori. Nella parte segreta della sua agenda, c’era un nome misterioso di una donna che apparteneva ai Servizi ma nessuno ha mai fatto nulla per individuarla. La verità, però, non la sapremo mai, come non la abbiamo saputa per Bologna o piazza Fontana» Leggi l'articolo completo su
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