Come quella del dittatore georgiano in «Morto Stalin se ne fa un altro», gustosissimo film appena uscito nelle sale con Steve Buscemi nella parte di Kruscev e un Berija strepitoso. Ma il che fare? - questa invece è una citazione leninista - è immediatamente piombato sul povero abete rosso che sembrava destinato al Paradiso (dei bruttini) e allora contrordine compagni. Spelacchio, dopo la svestizione, è stato subito rivestito, con tanto di luci smontate, rimontate e riaccese dai tecnici del Comune inerpicati sullo scheletro, per tenerlo a Piazza Venezia fino a giovedì.
Quando verrà celebrato un funerale in pompa magna - Giuseppe Gioachino Belli dove sei? non puoi raccontarci tu le esequie dell’abete rachitico come facevi con quelle dei grassi papi? - e poi come estrema fatica e come tormento supplementare gli toccherà reincarnarsi forse in una casetta per mamme e bebè, con tanto di fasciatoio, nella sua Val di Fiemme in cui farà ritorno e in parte anche in una non ben identificata «creazione artistica» che resterà quaggiù come monumento all’autolesionismo locale.
Intanto, «e fai le valigie, e posa le valigie», come si sghignazza sul web, e insomma smontalo, rimontalo, prepara la partenza, bloccala, muovilo, fermalo... Nel tentennamento più plateale, nella vaghezza più totale da parte di chi mai ha saputo prendersi cura di lui e anche nella fase dello smaltimento (a cui secondo i suoi fan dovrà seguire la beatificazione o almeno l’imbalsamazione) non sa come maneggiare il poveretto.
Ecco, nella Roma invasa dai rifiuti Spelacchio è diventato il rifiuto più ingombrante che c’è. Lui non fa problemi - e twitta così: «Dice che forse me vonno mette ar museo. A Caravaggio, scansete!» - ma anche la sua rimozione si sta rivelando un problema di tempi e di modi e ieri l’Urbe ha vissuto un’altra giornata di suspense per il suo albero che non è destinato a riposare in pace pur essendo già morto da un pezzo. Non volendo aggiungere rifiuto ai rifiuti straboccanti, per ora lo hanno lasciato lì. E nelle sue esequie rinviate c’è l’ennesima riprova dell’incertezza che grava su tutti gli scarti capitolini.
Perfino su quello che è diventato il più famoso di tutti, il più pop di ogni altro e che sarebbe potuto assurgere, con un po’ di lungimiranza in più, a emblema di come il Comune che non ha saputo maneggiare la sua vita poteva diventare il buon regista di una sua morte lineare, senza ulteriori scossoni e polemiche, sanamente priva di sovrastrutture sociologizzanti, del tipo eco-equo-solidali, così espresse dalla sindaca: «Di Spelacchio, di questa star internazionale, vogliamo fare un esempio concreto di riuso creativo». Anche se lui recalcitra via web: «Dopo che divento ‘na casetta pe’ ‘e mamme, che artro devo fa’? Spazza’ pure pe’ tera?».
Insomma, la sfortuna del malcapitato ospite continua. E il volersene liberare ma non essere capaci di farlo rappresenta platealmente quel deficit di decisione istituzionale che, in tanti altri campi, ben più importanti rispetto alla sorte di un abete, i romani ben conoscono. In questo, Spelacchio è diventato uno di noi.
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