Milano, la caposala in trincea al Sacco: «I malati hanno solo noi, ci parlano con gli occhi»

«Ne usciremo. Ma tutti con le ossa rotte, emotivamente provati. Tantissime persone sono in lutto per la morte di parenti, amici o conoscenti. Si perdono genitori, nonni, mariti, mogli nel modo più crudele, senza nemmeno poterli vedere, salutare per l’ultima volta, stringergli la mano. Perché i malati Covid- 19 sono in isolamento e i familiari sono spesso in quarantena, blindati a casa, che aspettano ogni giorno una chiamata per il bollettino medico». Cristina Piotti, 52 anni, è caposala del reparto malattie infettive-terza divisione del Sacco, uno dei centro di riferimento nazionale per l’emergenza sanitaria. Da più di un mese Cristina è in trincea. «Con turni di lavoro di oltre 10 ore al giorno, bardati per difendersi dal contagio», spiega. Nonostante la fatica sul volto segnato dalla mascherina, la voce è solare e rassicurante, a tratti rotta dalla commozione.

I malati sono nelle vostre mani.
«Ce la mettiamo tutta. Ma i contatti, sebbene siamo bardati, devono essere limitati perché li dobbiamo trattare come pazienti altamente contagiosi. Non possiamo neanche tenergli la mano e questo è struggente, perché il contatto fisico è consolatorio. Scriviamo cartelli, utilizziamo il cellulare e cerchiamo di dargli forza con parole e sguardi. E anche loro imparano presto a parlarci con gli occhi».
Cercano un gesto di affetto?
«Lo vorrebbero, ma hanno anche paura di infettarci e sono attenti. Sono tenerissimi. E fragili se qualcosa inizia ad andare storto». Che cosa va storto? «Il Covid-19, nelle forme più gravi, non ti permette di respirare ed è come annegare. È in quei momenti che leggi il panico nei loro occhi. Li aiutiamo con mascherine e caschi, un salvavita che fa molto rumore ed è difficile da sopportare. È dura, non sa quanto».
Racconti.
«È una sofferenza per un paziente non avere la propria famiglia accanto. Ed è un problema anche pratico, perché a volte ai ricoverati manca tutto, dai fazzoletti al pigiama».
E voi?
«Andiamo al supermercato a prendere il necessario».
Siete i loro angeli custodi?
«Li abbiamo adottati. C’è una gara di solidarietà però che coinvolge tutti e in ospedale nessuno si è mai tirato indietro».
Temete a volte di non farcela più?
«Noi dobbiamo reggere finché questo macello non finisce. Noi non molliamo un istante. Per questo supplico i milanesi di aiutarci, di stare a casa, perché se il virus sfonda a Milano il sistema rischia il collasso. Siamo già a dura prova».
Avete crolli emotivi?
«Io posso permettermi di piangere da sola, quando ritorno a casa in macchina o sotto la doccia. Al lavoro devo trasmettere sicurezza e in famiglia tranquillizzare mio marito Antonio e i figli, Greta e Andrea di 15 e 17 anni».
Com’è cambiata la sua vita?

«È stata stravolta. Mi chiedo sempre: e se mi porto dietro qualcosa dall’ospedale? Così adotto anche a casa piccole precauzioni che mi fanno stare tranquilla: vedo mia madre dalla finestra, non abbraccio più i miei figli da un mese, indosso la mascherina più leggera, dormo sola. Però mangiamo insieme, anche se distanziati, perché è l’unico momento di famiglia che ci resta».
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