Il Covid è un grande regista che ci fa mettere in scena un passato liberatorio

Marco Mottolese

Azzardo. Tutti facciamo statistica domestica con pochi dati in nostro possesso.  Personalmente non seguo i “social” in maniera pedissequa o ossessiva però confesso che un’occhiata quotidiana gliela do. E allora entro in Instagram, getto un raro sguardo a Facebook, cerco su Twitter qualche news; alla fine di questa passeggiata un’idea del sentimento generale me la faccio e così l’azzardo di cui parlo è quello che segue, che si associa indissolubilmente al tempo della pandemia altrimenti qui non troverebbe spazio.

 

Noto che la gente, sui social network, tende a raccontare, più di prima, di un’epoca giovanile, o comunque a spostare indietro nel tempo i contenuti che pubblica. Le immagini che scorgo risalgono ad anni anteriori – parlo dei più adulti, soprattutto- e i testi che le corredano sono moderatamente nostalgici, in sintonia con quel passato che, evidentemente, ha oggi un senso potente se lo si riesuma con questa infantile mancanza di pudore.

 

All’inizio della mia involontaria “indagine”, inciampando sempre più spesso in questi reperti, ho iniziato a pensare che non fosse un mio abbaglio, una mia accelerata pretesa di aver capito; così la “ricerca” ha assunto toni più seri, dettati dalla curiosità ma avulsi dalla morbosità e dunque  mi è parso lampante che la pandemia spinga le persone a voler rivedere per immagini il proprio passato e a condividerlo come scudo verso un futuro che ogni mattina appare denso di nubi, incerto.

 

Credo che ci si rivolga indietro per ricordare collettivamente come eravamo in quel tratto di vita passata che a ognuno oggi appare più densa e più felice di come sicuramente fosse, ma talmente caotico è il vivere nel 2021 che la fotografia di ciò che è stato si fa medicina.  Spuntano come funghi selvatici immagini di giovani famiglie che oggi tali non sono più, i figli partiti, i capelli ingrigiti; ecco apparire una foto che tutti abbiamo, la classica formazione scolastica di fine anno, chi in piedi, chi accucciato come le squadre di calcio, e poi, ovviamente, le foto di quando si era bellissime o bellissimi, che con coraggio si postano pur sapendo perfettamente che il tempo spalma, sulla beltà, il pennello della sua invidia.

 

 

Bei danni deve aver fatto in poco tempo la pandemia per farci chiedere in prestito al passato uno spunto che ci faccia risorgere, come a dire “ io c’ero quando tutto era bello, quando eravamo sereni” e, nel momento della scelta dell’immagine da condividere , siamo tutti naviganti che trovano, in quell’antica foto saltata fuori chissà da dove, la boa alla quale momentaneamente attraccare in attesa che il porto sia nuovamente sgombro.

 

In quei tempi - e in quelle foto che una volta si sarebbero dette “ingiallite” - non esistevano le mascherine; si entrava nei luoghi pubblici senza dover esibire un codice che è “passaporto” elettronico il quale, ad ogni “via libera”, ad ogni “verde”, ci fa sentire come dopo un controllo di  frontiera, ché passarla, pur se si è “persone senza macchia”, rimane sempre fonte di sollievo dopo il sottile stress. D’altronde oltrepassare una linea di demarcazione decisa dagli uomini rimane un esame della propria vita segreta.  In quel tempo andato, che per immagini viene riproposto per rigenerarsi, non eravamo aggredibili né aggressori né contagiabili né portatori sani.

 

Le immagini utilizzate, dulcis in fundo, vengono infine accoppiate a musiche che hanno lasciato un segno ma ormai completamente digerite dalla memoria e secolarizzate nell’immaginario collettivo. E’ un pezzo di passato fornito a volte di colonna sonora quello che collettivamente viene messo in scena e condiviso per aumentarne le sue potenzialità catartiche e, forse, farci sentire meglio. Il Covid è come un grande regista che istruisce e ci insegna a girare, con le nostre vite, un docufilm liberatorio che prende le mosse dal passato per far finta che il presente sia solo un set di una pellicola che non andremo a vedere.

 

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