Nobel, beffa di Dylan: non si fa trovare

Premio Nobel, la beffa di Dylan: non si fa trovare

di Andrea Spinelli
Fedele a se stesso, Dylan resta Dylan anche nel giorno del Nobel, che pure divide il mondo letterario, non tutto convinto di voler accogliere tra i propri pari il rocker. Incurante di tutto il can can intorno a lui, o almeno così sembra, l’altra sera sua Bobbità è salito sul palco del Cosmopolitan, un casinò di Las Vegas, proprio nel giorno dell’alloro. Ma non ha detto una parola, e non solo a proposito, occupato solo a continuare il suo «Neverending tour» che marcia su Phoenix (domani), Albuquerque (martedì), El Paso (il 19), Thackerville (il 22).

Il cantautore non cambia nemmeno la sua agenda nè si rende più disponibile del solito: l’Accademia reale di Stoccolma non è ancora riuscita a parlare direttamente con lui, si è dovuta accontentare del suo agente e del manager dei suoi show, che non sono riusciti nemmeno a organizzare un appuntamento telefonico. Il grazie dell’artista, insomma, non è arrivato, e potrebbe addirittura non ringraziare mai, ipotizza Bob Neuwirth, storico collega folksinger e amico, sulle colonne del «Washington Post».

Odd Zschiedrich, cancelliere dell’Accademia, comunque minimizza: «Non è la prima volta, anche in epoche moderne, che non si riesce a parlare direttamente con il premiato». Ma l’imbarazzo, dopo una scelta così controversa, potrebbe crescere nelle prossime ore. Qualcuno inizia persino a ipotizzare che Dylan possa rifiutare il premio, come finora hanno fatto solo da Pasternak nel ‘58 e da Sartre nel ‘64. A Las Vegas, con Paul McCartney che si esibiva in un casinò vicinio, giornalisti e fan di mezza età hanno fatto la fila invano. Nulla da registrare, a parte un unico bis, «Why try to change me now»: con un titolo così («Perché cercare di cambiarmi adesso») la scelta del brano che Sinatra incise nel ‘59 quando Robert Allen Zimmerman era «senior» al liceo, potrebbe diventare un indizio, dicono i dylaniani dylaniati.

È vero che fa parte di «Shadows in the night» del 2015, il primo dei due album dedicati a The Voice, è vero che la sua melanconica melodia era perfetta per la mecca del gioco cosi cara a Ol’ Blue Eyes, ma quei versi («Don’t you remember I was always your clown?», ovvero «non ricordate che sono sempre stato il vostro pagliaccio?») potrebbero sembrare un messaggio, uno sberleffo, o essere mera casualità. Intanto l’autobiografia «Chronicles» e la raccolta «The lyrics 1961-2012» scalano le classifiche di vendita su Amazon e l’effetto sul mercato discografico potrebbe essere lo stesso.

Ma il mondo della cultura non accoglie a braccia aperte il «collega»: il biografo di Philip Roth, Blake Bailey, dubito che lo scrittore «avrebbe preferito scrivere “Mr tambourine man” piuttosto che “Pastorale americana” o Don DeLillo “Underworld”».
E dal «Festival delle letterature migranti» di Palermo dubbi solleva il Nobel nigeriano Wole Soyinka: «Il prossimo anno dovranno dare due premi», dice: «La musica è sublime, ma non è poesia». Solo che per dimostrarlo usa un esempio decisamente fuori luogo, «il recente esperimento spaziale di rimandare dalla luna al nostro pianeta la musica di “Reach for the sky” di Quincy Jones», straordinario musicista, ma non certo autore di testi al livello di Bob, capaci di cambiare il corso della musica e di influenzare il costume e la politica del ‘900, non solo americano.

Ultimo aggiornamento: Sabato 15 Ottobre 2016, 13:02
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