'Una famiglia', Micaela Ramazzotti: "Io e le mie donne da coccolare"

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di Alvaro Moretti
Esploratrice di donne. Donne all’estremo, donne allo stremo. Donne. Micaela Ramazzotti, donna tra le donne, quelle patologiche – come diceva a Venezia – un po’ se le va a cercare. Perché esplora il femminile che dal quotidiano diventa eccezionale, non eccezione.

L’abbiamo incontrata mentre all’Hotel Plaza girava alcune scene del nuovo film di Andò, con in programma una commedia («col sorriso») di Chiesa con Fabio De Luigi è tra poche ore al cinema con Una Famiglia, dramma firmato da Sebastiano Riso. Maria si fa mettere incinta, Maria partorisce – seriamente, serialmente – ma «non è mai madre». Vittima e carnefice di un legame che «è una associazione a delinquere» con l’uomo che è tutto della sua vita. «Marito e amante, fratello e frenetico partner sessuale, sesso e gravidanza, ma soprattutto carceriere». Una storia terribile di «bambini nati per essere venduti in nero».

Una storia che nasce da storie vere, Una Famiglia (esce giovedì nei cinema): alla scrittura ha contribuito con i suoi appunti la pm Raffaella Capasso, della procura di Santa Maria Capua Vetere. 

Signora Ramazzotti, dopo l'eccezionale performance ne La Pazza Gioia (un'altra madre privata della maternità a causa della follia), ancora una donna con una storia difficile.
«Sebastiano Riso ha voluto mettere in scena un legame di dipendenza, un legame patologico, ma soprattutto una coppia criminale che vende figli in nero. La donna è succube di questo uomo, sia fisicamente che psicologicamente. Lei sembra attraversare la storia senza avere un passato, Maria ha solo Vincenzo: fratello, amante, marito e carceriere. È complice di un progetto che non ha immaginato, ma ha accettato».

Lei è madre, i suoi personaggi ostentavano una maternità talora persino morbosa, qui siamo agli antipodi.
«È stato duro entrare in una donna che partorisce, ma non porta mai al seno i suoi figli, che non è mai madre. Mai l'ho immaginata come madre: sempre ho pensato a Maria come a una bambina. Maria è una donna triste, non materna. Quella bambina si perde in percorsi fittizi, percorsi segnati da pezzettini di carta che lei lascia dappertutto». 

Un tempo, questo, di tanta violenza sulle donne. 
«E qui ce n'è un'altra forma: la prigionia. C'è la violenza fisica, psicologica. Maria vive chiusa a chiave. Nella prima casa lo scenografo inserisce delle sbarre: il regista lo sottolinea. Quella casa è una prigione. Una storia di oggi perché questo è un tempo molto crudele, perché pieno di violenza agita sulle donne. Molto crudele. Ma è anche il tempo in cui stiamo riuscendo, da donne, come lavoratrici ad ottenere con fatica dei risultati, la società era e resta maschilista».

Viene in mente Tutta la vita davanti...
«Siamo costrette a una conquista centimetro per centimetro, passetto dopo passetto. Poi arriva la notizia di una violenza perpetrata e sembra tutto cancellato».

Perché questo?
«Io non me lo riesco a spiegare perché l'universo maschile non colga la poesia della donna, il suo profumo creatore, la necessità di coccolarlo. Non solo come madre, ma come creatrice del mondo. Speriamo che questo racconto serva non a fermare la violenza, perché così non sarà, ma almeno ad allentare il laccio violento che sento attorno a noi donne». 

Micaela, ora però ci consegni anche il sorriso delle donne al cinema. 
«(Sorride) Due commedie in fila e due ruoli in cui le farò ridere le mie amiche donne. Promesso». 
Ultimo aggiornamento: Martedì 26 Settembre 2017, 09:35
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