Renzi trasloca a Palazzo Chigi ma chiede un monolocale

Renzi trasloca a Palazzo Chigi ma chiede un monolocale

di Stella Prudente
Troppa roba!. Sembra proprio che gli stucchi e lo sfarzo dell’arte decorativa settecentesca abbiano messo a dura prova Matteo Renzi, che da domenica notte si trasferito armi e bagagli a palazzo Chigi.



Forse il dipinto del Baciccia con Endimione spiato da Diana sui soffitti del salone d’Oro – piatto forte dell’appartamento presidenziale al secondo piano nobile – ha alimentato nel premier una certa soggezione. Fatto sta che ha già chiesto al cerimoniale se sia possibile ricavare da qualche parte una sistemazione più minimal, un’alternativa ai 300 metri quadri d’ordinanza. Sarà una bella gatta da pelare, visto che dentro il palazzo altri appartamenti non ce ne sono e un alloggio per il presidente «deve pur rispettare alcuni standard di sicurezza e privacy», come fanno notare alcune fonti. Per qualunque decisione, comunque, si aspettava la fiducia alle Camere (e ieri sono arrivati a sostenere Renzi a Montecitorio anche il babbo Tiziano e la mamma Laura, anche se in incognito, assecondando l’ordine filiale di low profile).



Pop sobriety Benvenuti nella Renzi sobriety, quella sobrietà pop incarnata dal sindaco di Firenze, che è cresciuto negli anni Ottanta con tutte le suggestioni della dittatura tv ben temperata dal cattolicesimo progressista degli scout. In un libro del 2006, era stato lui stesso a collocarsi «tra De Gasperi e gli U2» per riassumere in un pantheon lo stile. Poi vennero la smart, il «dammi del tu» e il pollice destro sempre allerta, tipico degli smartphone sapiens. Con buona pace del Cavalier Berlusconi che dieci anni or sono aveva provveduto a ristrutturare l’appartamento di Chigi a spese sue, con l’aiuto dell’ormai defunto architetto del Gattopardo Giorgio Pes. Nessuno si sarebbe azzardato ad aggiungerci o toglierci altro: è arrivata la crisi, e con essa, l’epoca della sobrietà. Si badi bene, dalla semplicità del Professore di Bologna siamo lontani anni luce. Con i suoi passaggi, sia nel 1996 sia nel 2006 Prodi stupì per l’ospitalità spartana che il genio di Corrado Guzzanti riassunse con l’immagine gastronomica della mortadella. La signora Flavia aveva concesso come unico vezzo al marito appassionato di ciclismo di portarsi la cyclette. Sono seguiti l’austerità da loden di Mario Monti e l’estetica dei bocconiani.



Il cappotto in cachemire che Chiara Beria di Argentine giustamente accostò a «lor scior pien de danee» (i benestanti nel dialetto di Porta), era in sé un manifesto della sobrietà riletta dall’élite economica e culturale del Paese. Quindi avanti con gli anni, per non dire vecchia. La svolta generazionale si è avuta con Enrico Letta, classe 1966, anch’egli, come Renzi, animale da social network. Ma i detrattori l’hanno definito Forlani 2.0, per denunciarne i compromessi di stile e sostanza da vecchia Dc: l’ex presidente del Consiglio in fondo ha pagato il prezzo di aver intristito la sobrietà, abbassandola al livello di «normalità». «Letta è uno normale», come l’hanno sempre descritto gli abitanti di Testaccio, il quartiere dove è rimasto a vivere con moglie e figli durante i mesi di governo. La normalità però non è pop, come insegna l’alfabeto della tv privata berlusconiana, perché regala al pubblico sogni ed evasione. In questo il sindaco di Firenze ha superato il competitor generazionale: è più obamiano di Letta, perché come il presidente Usa riesce nella difficile impresa di contaminare e tenere insieme alto e basso. Sempre in bilico tra De Gasperi e gli U2, tra Nelson Mandela e le Icona Pop.
Ultimo aggiornamento: Mercoledì 26 Febbraio 2014, 09:27
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