Muore di fame nel palazzo dei disperati:
eritreo trovato senza vita alla Romanina

Muore di fame nel palazzo dei disperati: eritreo trovato senza vita alla Romanina

di Elena Panarella
Amanuel Toshome, giovane eritreo, morto di fame in silenzio. Poco più che ventenne, era uno dei tanti ragazzi che era riuscito a superare il deserto della Libia, a navigare nel Mar Mediterraneo per arrivare in Italia. E infine a Roma con il treno. «Non ce l’ha fatta», raccontano i compagni. «Chi risponderà di questa morte e di tutte quelle che stanno avvenendo ogni giorno nel “mare nostrum”?», si chiede Gemma Vecchio, presidente di Casa Africa. «Una settimana fa nel centro occupato della Romanina è morto di stenti il giovane eritreo - racconta - E oggi grazie all’associazione che gestisce questo centro ha fatto il viaggio di ritorno verso il suo Paese, in una bara».



GLI AIUTI

«Non vorrei piangere un altro ragazzo - continua Gemma - Questa è una tragedia annunciata perché più volte ho scritto al g]overno e al Comune di Roma, facendo presente la gravissima situazione di queste persone che arrivano a Roma e vanno dove ci sono altri loro conterranei. Dormono nelle piazze, sotto i porticati e molti non sanno cosa fare, sono totalmente spaesati. Basta dire accogliamoli, basta sfruttare questi Paesi. Sarebbe più logico e più umano alimentare la pace dando la possibilità a questi ragazzi di poter vivere in modo dignitoso nel loro Paese». Ed è proprio per questo «che abbiamo preparato un filmato in tutte le lingue e dialetti da far vedere a questi ragazzi e alle loro famiglie nei loro Paesi per non farli più partire. Devono comprendere bene cosa accade durante questi viaggi e cosa trovano quando arrivano. Sono immagini dure ma reali».



IL PALAZZO OCCUPATO

Centinaia di persone eritrei, sudanesi, etiopi, somali, libici in fuga dalle guerre da anni ormai sono dimenticati e abbandonati nella vecchia sede dell’università Tor Vergata, a due passi dal centro commerciale La Romanina. Un’isola della vergogna in mezzo a un deserto: senza luce e senza acqua calda, i servizi igienici pochi e improvvisati. Un solo impianto elettrico di emergenza, a cui tutti si agganciano con prolunghe che penzolano da tutte le parti. Corridoi allagati, muri fatiscenti. Questo palazzone, l’unico che è riuscito a ospitarli fino ad oggi, sta cadendo a pezzi. Dalle finestre appaiono tende ricamate, si intravedono foto e poster alle pareti. Le antenne paraboliche sono l’unico contatto con i loro Paesi. Il primo piano è una sorta di girone dei dannati, dove si sistemano gli ultimi arrivati, ammassati dentro le aule. I piani alti sono occupati da famiglie con bambini e dai primi arrivati a Roma, pieni di speranze. Sulle porte restano le targhe dell’ateneo con le materie: letteratura italiana, storia medievale, storia contemporanea.



«La notte ho ancora gli incubi - racconta Marcus, eritreo, 26 anni tra pochi giorni - Il sangue della guerra nel mio Paese, i cadaveri per le strade, la paura. E poi quelle onde altissime che ci hanno portato fino a Lampedusa dove sono riuscito ad arrivare assieme a mio fratello». Come fate per vivere? «Ci arrangiamo - ammette - non è facile stare così, ma noi veniamo da Paesi in guerra siamo abituati a lottare per sopravvivere. Io mi alzo alle quattro per andare a lavorare come muratore e torno verso le sei del pomeriggio, devo pensare a mio fratello che è più piccolo».
Ultimo aggiornamento: Venerdì 4 Luglio 2014, 13:25